mercoledì 21 dicembre 2011

A volte ritornano: l'articolo 18 e il desiderio di abrogarlo

Art. 18 - Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. [omissis]
Periodicamente questo lungo periodo della legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, viene messo in discussione e accusato di essere una delle principali cause della crisi italiana. Si dice che siamo gli unici in Europa ad avere una disposizione simile (probabilmente la Francia si è spostata in Asia, allora!) e che eliminare la tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati avrebbe come effetto l'aumento dell'occupazione e la riduzione della precarietà.
Visto che in Francia e in Spagna (anche se in misura minore) è prevista la reintegrazione del lavoratore, possiamo escludere che la riforma dell'articolo 18 ci avvicinerà a un qualche fantomatico modello europeo. Più degne di analisi, invece, sono le altre due motivazioni portate, che promettono straordinari benefici in cambio dell'eliminazione di questa importante tutela.
Va detto per prima cosa che l'articolo 18 non vieta di licenziare in assoluto: se un'impresa è in crisi ha il diritto di licenziare, così come si può licenziare il dipendente diventato inutile e il dipendente sistematicamente inadempiente. E' vietato, invece, licenziare tanto per, licenziare per sadismo, licenziare per antipatia (in tal caso tanto vale non assumere una persona antipatica a pelle, no?) e, in generale, cacciare un lavoratore senza giusta causa o giustificato motivo.
Perché un'impresa dovrebbe essere messa in difficoltà dal divieto per il suo proprietario di cacciare su due piedi un lavoratore che fa il proprio dovere? Piuttosto un licenziamento irragionevole non rischia di fare del male all'impresa stessa in quanto la priva di un collaboratore esperto, formato e integrato? Quello che fa prevalere i gusti personali all'interesse della propria attività è niente altro che un pessimo imprenditore: se segue i propri capricci nell'organizzazione del lavoro, perché non dovrebbe seguirli anche nella gestione delle risorse economiche?
La riforma dell'art. 18 favorirebbe gli imprenditori peggiori, delegando a loro il compito di promuovere la crescita e di aumentare l'occupazione, alla faccia di tutti i bei discorsi sul merito e sull'oculatezza. Verrebbe dato l'incentivo ad assumere a chi non sarà in grado di dirigere correttamente la propria attività e che quindi sarà più portato a farla fallire, con le logiche conseguenze sul piano dell'occupazione.
Si dice poi che l'abrogazione dell'art. 18 porterebbe ad una riduzione della precarietà: si assume a tempo indeterminato se si sa che poi il dipendente sarà licenziabile a piacimento. Resta solo da capire quanto fisso sia il posto di lavoro da cui si può essere cacciati semplicemente per essersi presentati a lavoro con la cravatta annodata male. Semplicemente, privando i lavoratori di questa tutela, li si precarizza in massa.
Gli argomenti teorici esposti non sono altro che una risposta ai discorsi altrettanto teorici dei promotori della riforma. C'è chi, invece, ha provato a cimentarsi in qualche statistica, con risultati sorprendenti. Se ci sono dati contrari che potrebbero far pensare ad un'utilità dell'abrogazione, sono i benvenuti: fino ad ora gli abolizionisti si sono limitati a promettere gli indimostrati effetti taumaturgici che deriverebbero dall'eliminazione della norma.

sabato 10 dicembre 2011

Io sono mia. Anzi, io sono loro...

La cultura cambia e in Trentino sembra che cambi più velocemente che altrove. Non è passato molto tempo, infatti, da quando un giudice decise di togliere un bambino ad una madre troppo povera per poterlo mantenere adeguatamente: allora, ribaltando la concezione comune, si stabilì che il benessere materiale (non psico-fisico: non c'era timore di maltrattamenti) del figlio supera l'interesse all'unità della famiglia (che, ricordiamolo, è costituzionalmente garantito). Ora, invece, sempre a Trento, è avvenuta la trasformazione concettuale dell'aborto.
Solitamente l'aborto è presentato come una extrema ratio ed è in questo senso che personalmente lo accetto nell'ordinamento: in certe situazioni, dopo una molto attenta riflessione, si sacrifica totalmente un bene futuro (la vita del nascituro) per salvaguardare un bene presente di un altro soggetto (la madre).
Emma Bonino aveva affermato a Vieni Via con Me che l'aborto non sarebbe un diritto, ma niente altro che il rovescio della medaglia del diritto alla maternità consapevole. Cioè, in soldoni, la realizzazione di quel sacrosanto io sono mia gridato in altri tempi: se una donna è padrona di se stessa, allora deve poter decidere anche quando mettere al mondo un figlio e quando no.
Adesso si fa il salto di qualità e si nega alla madre l'essere propria, adducendo la ragione dell'età: sono i genitori a dover decidere per lei, a poter disporre del suo corpo per il suo bene. Il principio della libertà di scelta individuale, la bandiera della legalizzazione dell'aborto, viene negato disinvoltamente. La logica conclusione è che l'aborto smette di essere extrema ratio o anche solo eccezione e diviene una possibilità come un'altra in caso di gravidanza, attivabile (in alcuni casi particolari, come questo) anche da terzi.
Oggi si è chiesto alla madre, in modo martellante, invadente e agitando anche la minaccia legale, semplicemente di eliminare il proprio figlio non ancora nato con la motivazione del bene personale. Però, mutatis mutandis, cosa potrebbe accadere se in caso di legalizzazione dell'eutanasia passasse l'idea che i genitori possano chiedere insistentemente e in modo martellante al figlio di farsi uccidere per il proprio bene?
Sarebbe stato interessante sapere cosa avrebbe deciso il giudice se effettivamente la madre trentina fosse riuscita a resistere alle fortissime pressioni psicologiche esercitate dalla famiglia, ma purtroppo (o per fortuna) non si è giunti al giudizio.
Ma se il tribunale avesse dato ragione ai genitori, accogliendo la loro linea, che garanzie avremmo avuto in caso di futura introduzione di leggi sull'eutanasia? Applicando logiche simili si darebbe di fatto la licenza di uccidere agli esercenti patria potestà?

martedì 6 dicembre 2011

L'eterno ritorno dell'eterno ritornello

Guardare a Ballarò gli interventi della Gelmini e di Maroni, intrisi di populismo facile e ottuso e privi di qualsiasi utilità concreta, non può non ricordare queste pagine di un romanzo non certo scritto da un autore al soldo di Monti o di un reazionario affamatore della BCE.


Era quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino). [...] E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l'esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutt'a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl'incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S'imploravan da' magistrati que' provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l'abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d'attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de' rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de' più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l'uomo secondo il suo cuore.
I Promessi Sposi, cap. XII

Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che l'abbondanza fosse tornata in Milano, come per miracolo. Pane in quantità da tutti i fornai; il prezzo, come nell'annate migliori; le farine a proporzione. [...] Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan fatto in quell'altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa d'Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche quattrino da parte, l'investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie. Così, facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sé, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea.
[...]
La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda. I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti.
[...]
Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de' conti, i frutti principali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta.
I Promessi Sposi, cap. XXVIII 
E ancora una volta il popolo correrà dietro ai Ferrer di turno, dimenticandosi, magari, che è stato Berlusconi a pretendere la fiducia sulla manovra in modo da evitare modifiche.

sabato 3 dicembre 2011

Dibattito sul suicidio assistito

Sul Fatto Quotidiano è apparso questo scambio di opinioni tra Marco Travaglio e Paolo Flores D'Arcais in materia di suicidio assistito/omicidio del consenziente. Un confronto che credo sia migliore di molti altri perché ripulito del sottobosco di guerra per bande politica e privo, nella voce "contro", della solita retorica a cui gli autori clericali (il peggio del giornalismo italiano: Socci, Ferrara e compagnia) ci hanno abituato. Niente spaccatura destra-sinistra, laicisti-clericali e via dicendo, ma pura e semplice ontrapposizione di punti di vista.
Non è un dibattito che ha la pretesa di essere universale e capace di dare una risposta a tutti i singoli casi (sebbene spesso D'Arcais la butti in questo senso), ma si incentra su un caso specifico, ovvero quello di chi è spinto a farla finita non da una malattia allo stadio terminale, ma dalla propria condizione psicologica.

Aggiungo in appendice una riflessione in più, squisitamente giuridica.  Lo stato di incapacità naturale (cioè non ufficialmente riconosciuta) può anche essere dovuto a situazioni depressive acute e in questa condizione la legge stabilisce che, se una persona stipula un contratto, poi, riacquistata la normale lucidità, ha il diritto di farlo dichiarare nullo. Come si può riconoscere ad un soggetto il diritto di disporre in modo irreversibile della propria vita se non può nemmeno farlo dei propri beni?

martedì 29 novembre 2011

Che sia detto pazzo, per salvare la pazzia di tutti gli altri

Alla fine, per il principio del terzo escluso, sta succedendo quello che era prevedibile. Breivik o sarebbe stato condannato per i suoi crimini, oppure sarebbe stato dichiarato pazzo (cioè incapace), o l'una o l'altra cosa, e dopo le perizie psichiatriche tutto fa pensare che si sceglierà la seconda opzione.
E' più semplice, perché lava la coscienza collettiva dell'Occidente, perché separa la figura del mostro da noi (anche Hitler lo vorremmo pazzo) ripristinando quella linea invisibile che separa il noi dall'altro, includendo nella prima categoria ciò che accettiamo e relegando nella seconda i nostri fantasmi più oscuri, ciò che è inaccettabile. Il pazzo è l'altro per eccellenza, colui che non è inquadrabile nelle categorie logiche perché rifiuta le nostre regole razionali, perché il suo modo di combinare le premesse o perfino le sue stesse premesse del suo pensiero ci sono estranei.
Ma con Breivik siamo davvero davanti all'altro, cioè al pazzo? In cosa divergevano i suoi sproloqui islamofobi dalle tiratissime ed osannatissime opere di Oriana Fallaci ultimo stile, che denunciava l'invasione musulmana e la complicità della sinistra multiculturalista e che ad un certo punto si vantava perfino di essere venuta alle mani con un immigrato a Firenze? In cosa si differenzia Breivik da chi bombarda dall'alto dei cieli un ignaro quartiere residenziale mediorientale i cui abitanti hanno la colpa di essere concittadini dei nemici dell'Occidente?
Quindi di Breivik non percepiamo estranee le premesse (cioè l'islamofobia, l'antimulticulturalismo, il pensiero che a volte sia necessaria la violenza più cieca per eliminare i nostri nemici), ma le logiche conclusioni a cui il terrorista è arrivato a partire da quelle premesse: si può magnificare chi inneggia all'eccidio dei nemici dell'Occidente, ma se all'improvviso qualcuno agisce di conseguenza, facendo ciò che era stato invocato da chi poco prima era stato applaudito da folle esaltate, allora diventa pazzo.
Pazzo perché così non ci tocca il fastidioso sforzo di ripensare le nostre premesse concettuali, pazzo perché non può che essere diverso da noi chi la pensa come noi, eppure agisce in un modo che istintivamente ci ripugna. Può essere come noi chi condivide le nostre idee, cioè che l'Islam è un nemico che ci ha dichiarato guerra e che le sinistre gli stanno aprendo le porte, ma arriva a comportarsi di conseguenza, cioè a prendere le armi e combattere? Occorre che un singolo espii le colpe della collettività da assolvere e il terrorista norvegese può esserlo.
Ma è pazzo Breivik, che si sente in guerra e prende le armi, o Borghezio, che (a quanto dice) si sente come il primo in guerra, ma poi sostiene di non condividere il metodo militare del terrorista? Chi è che non pensa in modo conforme alle premesse dei propri ragionamenti?
Meglio dichiarare pazzo quello che pensa e agisce in modo razionalmente coerente, altrimenti ci toccherà ripensare molte, troppe cose.

lunedì 7 novembre 2011

Alla frutta

Sì, se ne va. No, non se ne va. E' questione di ore. No, resiste. La maggioranza c'è, la maggioranza non c'è...
In un'agonia senza fine, il governo, che per tre anni ha negato l'esistenza della crisi e che ancora qualche giorno fa la derubricava ad un fenomeno passeggero, che non ha fatto assolutamente nulla mentre le borse crollavano ed i tassi di interesse sul nostro debito pubblico schizzavano alle stelle, alla fine ha consegnato il paese nelle mani degli strozzini del Fondo Monetario Internazionale.
Che un latin-lover che va ai meeting europei giusto per guardarsi qualche fondoschiena, un vecchietto che pare che sia costretto a versare centinaia di migliaia di euro a faccendieri perché loro non testimonino nei processi a carico del satrapo, fosse troppo preso dagli ultimi rigurgiti di testosterone per badare al bene pubblico sembra scontato. Eppure si trova sempre in parlamento qualche macchietta come Scilipoti a sostenerlo e sui giornali ed in televisione qualche maggiordomo come Ferrara ad incensarlo.
Del resto è stato il Popolo Sovrano, non solo ad eleggerlo, ma ad incoronarlo: il nostro piccolo Napoleone ha sempre affermato candidamente di trovare la democrazia solo un impiccio, di volere tutto il potere per sè, senza limiti, di aspirare ad essere un monarca assoluto, il Re Sòla, più che un presidente del consiglio.
E solo ora che si scopre che il Cesare a-loro-immagine-e-somiglianza ci sta trascinando tutti nel baratro, c'è chi si rifugia in un'antipolitica ovina (tanto i politici sono tutti uguali - come se questo bastasse come assoluzione!) e chi invece si aggrappa alla figura del Capo, povera vittima di non si sa bene cosa.
La conferenza stampa che ha seguito il G20 è sembrata l'ultima superba festa di corte, dove sono state ripetute come un mantra le solite fandonie e dove Berlusconi e il suo non più fido Tremonti hanno dato sfoggio di tutta la residua arroganza di chi non sa più che pesci pigliare, ma che si sente comunque in una botte di ferro. Adesso non resta che aspettare la fine dell'incubo, sperando che nel risvegliarci non andremo incontro a qualcosa di persino peggiore.

venerdì 30 settembre 2011

Appello pidiellino per la fine della ricerca storica

Torno a scrivere per diffondere questo articolo pubblicato in un altro blog e che credo sia decisamente condivisibile. Oltre ad affrontare alcuni temi a me cari come il problema della medievistica italiana, i preconcetti sul Medioevo e il sempre più diffuso disprezzo per le discipline non tecnico-scientifiche, il pezzo mette in evidenza l'ennesimo caso dimostrante che un popolo bue non può che eleggere politici buoi i quali alimenteranno il circolo vizioso rendendo il popolo ancora più bue.
Dopo le ultime uscite della Gelmini, però, forse il senatore di cui si parla ha ragione a chiedere tagli alla medievistica: tutte le risorse vanno convogliate nel team di insegnanti di geografia che dovrà cercare di insegnare alla signora ministro che il Gran Sasso non fa parte delle Alpi o, in alternativa, che Ginevra non è in provincia di Teramo...


Un senatore del PdL e il Medioevo

Fuori dallo studio di un professore di storia di Ca’ Foscari (università di Venezia) c’era appeso questo. Purtroppo, non so la data di quando questo discorso sarebbe stato pronunciato/pubblicato. E’ stato esposto dal professore immagino per far conoscere alle persone chi è che ci governa.




La Storia Medievale secondo un senatore del PDL


Dibattito Parlamentare


RAMPONI (pdl) Non riesco a comprendere, innanzitutto, che cosa ancora ci sia da ricercare sul Medioevo. Per dirla francamente, vi sono centinaia di migliaia di studi, pubblicazioni e libri che da trecento anni riempiono le biblioteche e che godono di una discreta consultazione. L’importanza di conoscere la propria storia si esplica nello studiare la storia, non continuando per centinaia di anni a fare ricerca.

In secondo luogo, l’Italia dedica certamente poche risorse alla ricerca, ma quelle poche necessitano di un discernimento nella scelta. Ebbene, a me non sembra che sia così necessario studiare il Medioevo e varare addirittura una legge per sostenere quattro istituti che fanno ricerca su tale periodo, ricerca che, tra l’altro, viene svolta anche da tanti altri enti a livello universitario.


Voi parlate di turismo e di prestigio della nostra storia, ma se c’è un periodo durante il quale la nostra storia ha ben poco prestigio è proprio il Medioevo. Quindi, potremmo anche concentrarci a diffondere valori della nostra cultura là dove sono veramente grandi.




“Non riesco a comprendere, innanzitutto, che cosa ancora ci sia da ricercare sul Medioevo. Per dirla francamente, vi sono centinaia di migliaia di studi, pubblicazioni e libri che da trecento anni riempiono le biblioteche e che godono di una discreta consultazione”.
E’ indubbiamente vero che vi sono moltissimi studi e pubblicazioni sul Medioevo, ma forse al sommo senatore sfugge un minuscolo particolare: in qualunque ambito si continua a studiare, a fare ricerca, a progredire, e non si rimane fermi sulle posizioni di un secolo prima (o addirittura di un anno prima). Altrimenti, perché non rimanere all’efficace medicina del ‘600? In base a nuove scoperte, si possono fare nuove considerazioni, nuove ipotesi, comprendere punti precedentemente oscuri, rimettere in discussione precedenti teorie e porsi nuove domande. E questo, però, non solo grazie a nuove fonti scoperte, ma semplicemente grazie al fatto che ogni persona è diversa dalle altre, che le generazioni si trovano in climi culturali diversi, e dunque si pongono domande diverse. Infatti, alla storia vengono poste domande che servono per l’oggi. “La storia è sempre storia contemporanea” sostiene Croce. Nuove domande portano nuove risposte, e le nuove risposte inevitabilmente generano altri dubbi. Un documento può essere esaminato per ricevere risposte, diverse, a diversissime domande. La ricerca non è mai finita, così come in qualunque altra disciplina degna di questo nome. Perché non abbiamo più il sistema tolemaico? Perché qualcuno ha fatto ricerca. Perché non ci siamo fermati alle scoperte di Galileo e Newton? Perché la ricerca è continuata, e continua ancora, nonostante l’enorme mole di studi e libri pubblicati.
Probabilmente, però, il dotto senatore ce l’ha su col Medioevo perché la ricerca in tale ambito non procura una ricchezza immediata e i benefici che può dare sono troppo difficili da applicare, e forse non sono così voluti dalla classe politica.

“L’importanza di conoscere la propria storia si esplica nello studiare la storia, non continuando per centinaia di anni a fare ricerca”.
Ma certo! Come abbiamo potuto essere così idioti? Livio e Tacito hanno già scritto della storia di Roma antica, quindi perché tanti altri stupidi, nel corso dei secoli, hanno sprecato il loro tempo a studiarla e a fare ricerca? C’erano già Livio e Tacito, avevano già fatto ricerca loro e già ci avevano presentato la storia di Roma! Perché investigare ancora? Detta in altri termini: perché voi, massa popolare, dovreste far ricerca e scoprire qualcosa di nuovo, farvi un’idea ed eleborare teorie o perlomeno vostri convincimenti? Voi studiate la storia che vi diamo noi, e basta!
Mussolini non avrebbe potuto essere più d’accordo.


“In secondo luogo, l’Italia dedica certamente poche risorse alla ricerca, ma quelle poche necessitano di un discernimento nella scelta. Ebbene, a me non sembra che sia così necessario studiare il Medioevo e varare addirittura una legge per sostenere quattro istituti che fanno ricerca su tale periodo, ricerca che, tra l’altro, viene svolta anche da tanti altri enti a livello universitario”.
Un’altra persona potrebbe rispondere che a lei non sembra così necessario investire nel campo bellico, dato che l’Italia teoricamente ripudia la guerra come strumento per risolvere le dispute e che, sempre in teoria, non siamo in guerra, ma impegnati in missioni di pace.
Non so quali siano i quattro istituti menzionati, ma so che le università hanno ben pochi finanziamenti per la ricerca e che molti corsi, sia di storia sia d’altro, vengono aboliti per mancanza di soldi. Dunque, chi è che dovrebbe farla questa ricerca?

“Voi parlate di turismo e di prestigio della nostra storia, ma se c’è un periodo durante il quale la nostra storia ha ben poco prestigio è proprio il Medioevo. Quindi, potremmo anche concentrarci a diffondere valori della nostra cultura là dove sono veramente grandi”.
Suppongo che l’illuminato senatore del PdL non abbia mai sentito parlare dei Longobardi (o che gli siano sfuggiti molti scritti che mostrano come il periodo longobardo non fu affatto di decandenza), del periodo dei Comuni, di Venezia, di Dante, Petrarca e Boccaccio, tanto per rimanere su cose note ai più. Forse il sapiente senatore è rimasto all’idea Quattro-Cinquecentesca di Medioevo, il Medioevo come età di oscurantismo e decandenza. Ma, in effetti, dato che il saggio senatore è contrario alla ricerca, è logico che sia rimasto indietro di 600 anni.
Sarebbe interessante sapere quali sono i periodi storici, secondo il senatore filosofo, che hanno dato veramente prestigio alla nostra storia. Contando che da circa metà ‘500 l’Italia è stata dominata da potenze straniere fino a quando il Duca di Savoia si è ritrovato per caso re di Italia, e contando che, a quanto pare, secondo lui, il Medioevo non ha dato prestigio all’Italia, le soluzioni sono due: un’epoca di prestigio per l’Italia è o prima del Medioevo o dopo la dominazione straniera, quindi nell’800, grosso modo (contando che le prime spinte di indipendenza si ritrovano anche nella prima metà del secolo). La storia romana non può certo aver dato prestigio all’Italia per il semplice fatto che definire i romani italiani è piuttosto dura. Inoltre, per quanto alla Lega possa dispiacere, per lungo tempo l’Italia vera era quella sotto al Po, mentre a nord c’erano popoli considerati barbari, come i Galli. Ma forse alla Lega non dispiace: in fondo, pare che siano convinti di discendere dai Celti e, cosa veramente assurda, di conoscere le usanze celtiche. Inoltre, la cultura romana era troppo impregnata di Grecia perché il prestigio possa andare alla sola Italia, senza contare che la parte Occidentale dell’Impero decadde negli ultimi secoli di quella che viene considerata storia romana, sostituita, come importanza, da Bisanzio.
Dunque, la parte di storia che dà prestigio all’Italia deve essere quella dell’Ottocento e del Novecento. Nell’Ottocento  uno statarello ha creato, quasi senza volerlo, uno Stato ed è poi stato incapace di dirigerlo, salvo qualche parentesi qua e là. Nel Novecento, però, l’Italia ha l’Impero! E’ questo che dovrebbe darci prestigio? L’avere due scatoloni di sabbia, conquistati, fra l’altro, a prezzo di moltissime vite e ricorrendo, infine, ai gas, il cui utilizzo era teoricamente proibito? E che dire poi della partecipazione dell’Italia alle leggi razziali (che non sono un’invenzione, né un’imposizione, della Germania, smettiamola di prenderci in giro)? E poi c’è la fuga del re e lo sfascio dell’esercito e dello Stato italiano. Sono questi a darci prestigio?
Forse allora la seconda metà del secolo Novecento. Però, direi che nemmeno in questo arco di tempo c’è molto che possa dar prestigio all’Italia.
Non è che, forse, non bisogna cercare l’epoca storica che dà prestigio al singolo Paese, ma studiarle tutte? Fare ricerca su tutte? I valori della cultura italiana, ed europea, affondano nella storia greca, romana e celtico-germanica, e nel cristianesimo che le amalgamò e arricchì. I valori di una cultura non nascono in un anno, o anche 10 secoli, ma hanno una storia millenaria. Bisogna conoscerla, studiarla e investigarla tutta, se si vogliono davvero comprendere i valori e la propria cultura, cosa che al giorno d’oggi viene fatta ben poco.

Qui si parla di un singolo senatore, ma naturalmente, e purtroppo, egli non è che un’espressione di un sentire più comune e diffuso, pertanto quanto scritto si riferisce a tutti costoro e non a un singolo.
 Fonte: http://poetitenebrosi.blogspot.com/2011/09/un-senatore-del-pdl-e-il-medioevo.html

domenica 28 agosto 2011

Avvenire al suicidio

Un articolo di Avvenire cerca di replicare agli attacchi concentrici recentemente sferrati contro la Chiesa dalla stampa progressista, a proposito delle varie esenzioni fiscali di cui godono le organizzazioni religiose. Un editoriale di Marco Tarquinio respinge le accuse e rinnova le critiche (condivisibilissime) alla manovra e all'inerzia delle istituzioni davanti alla spaventosa evasione fiscale italiana. In particolare, si accusano i politici di essere teneri con gli evasori per convenienza elettorale, essendo quella categoria, molto variegata, forte numericamente ed economicamente.
Il pezzo riesce ad essere equilibrato ed efficace fino all'ultimo paragrafo, dove, invece, il giornalista si ricorda di darci un'informazione cruciale su uno di coloro che a suo parere sarebbero i mandanti dell'assalto alla Chiesa: è un capo massone. Sì, uno dei capi di quell'oscura forza segreta che da secoli complotterebbe contro il cattolicesimo muovendo media, politica, economia, scuola, il gelataio all'angolo, l'elettricista, l'apparentemente innocuo bambino al parco giochi col palloncino, gli UFO e magari anche le scie chimiche, i men in black e chissà che altro.
Il peggiore boomerang possibile quando si deve rispondere ad accuse razionali e basate su dati (veri o falsi che siano) è gridare al complotto di forze oscure nemiche giurate della propria parte. Cadere nel complottismo priva un commentatore della credibilità che gli servirebbe per convincere della bontà delle proprie tesi e regala agli avversari l'opportunità di dipingerlo come farsesco o, peggio, delirante.
Così di tutto l'articolo di Avvenire solo l'ultimo paragrafo, quello sulla massoneria, è finito alla ribalta delle cronache ed è stato commentato dagli avversari della Chiesa. Gridare al massone, ormai, porta a venir presi sul serio solo da qualche clericale accanito, mentre alla gente comune provoca solo una reazione ilare: Avvenire è alla frutta e, non avendo altri argomenti, se la prende con nemici immaginari.
Il passo falso di Avvenire, ora, avrà gravissime ripercussioni sul fronte clericale, visto che è prevedibile che tutti i cattolici complottisti ripeteranno rinfrancati nelle loro assurde paranoie, questa assurda teoria della cospirazione massonica per far pagare l'ICI alle chiese, mentre i commentatori più equilibrati (e più seri) dovranno scegliere se tacere o se correre il rischio di essere accostati ai primi, coprendosi loro malgrado di ridicolo. Ancora peggio se la tesi del complotto sarà percepita come il punto di vista ufficiale della Chiesa (facile, visto che nel clero i maniaci di persecuzione sono moltissimi), la cui credibilità, già al minimo storico a causa delle sue pessime guide, sarà ulteriormente compromessa.
E mentre si parla di congiure, luoghi di culto e laicità dello Stato, le finanze pubbliche sono alla deriva e gli evasori ringraziano quest'ultima arma di distrazione di massa che li ha salvati dall'invece doveroso e necessario giro di vite.

sabato 27 agosto 2011

Sono solo un povero benestante!

In ques'estate caotica, il governo, così sbandato da far invidia all'ultimo di centrosinistra, ha già dovuto rimangiarsi quell'ombra di disegno di giustizia sociale che voleva essere il contributo di solidarietà da far pagare ai più ricchi perché contribuissero alla quadratura dei conti pubblici.
Si trattava di un aumento dell'aliquota marginale del 5% per la fascia di reddito tra i 90 e i 150 000 euro e del 10% sopra i 150 000. In parole povere, un contribuente che avesse dichiarato un reddito di 200 000 euro avrebbe pagato il 23% di IRPEF sui primi € 15 000 di reddito, il 27% sulla porzione di reddito tra  €15 001 e € 28 000, il 38% su quella tra € 28 001 e € 55 000, il 41% su quella tra € 55 001 e € 75 000, il 43% su quella tra € 75 001 e € 90 000, il 48% (IRPEF più contributo) su quella tra € 91 000 e € 150 000 e, infine, il 53% su quella in eccedenza rispetto a € 150 000.
Sarebbe stata una misura in linea col principio di progressività del prelievo fiscale, costituzionalmente garantito, che prevede che le aliquote crescano con il crescere del reddito. Si comprende, infatti, che non è sufficiente una normale proporzionalità, in quanto ha un differente peso un singolo euro tolto a un povero e la stessa somma tolta ad un contribuente agiato: il primo difetta già dell'essenziale, il secondo, invece, dovrà rinunciare soltanto al superfluo.
Questo concetto, che gli economisti chiamano funzione di utilità, è comprensibile con un esempio: se il reddito necessario per la mera sopravvivenza è 95 ed esistono due contribuenti, uno che percepisce 100 e l'altro che percepisce 1000, un'eventuale aliquota unica del 10% farebbe precipitare il reddito del primo a 90 (quindi sotto il minimo vitale), mentre quello del secondo, anche se in termini assoluti più colpito (100 contro 10), scenderebbe a 900, senza provocare un sacrificio nemmeno lontanamente simile a quello del primo soggetto.
La proposta ha messo in agitazione gli interessati, ovvero coloro che guadagnango 7500 euro lordi al mese, che replicano inorriditi che loro non sono ricchi, ma benestanti (nota categoria distinta), anzi, ceto medio (i poveri sono per caso quelli che percepiscono meno di €5000?). E poi lettere sui giornali di poveri benestanti disperati che minacciano di andarsene dall'Italia, che denunciano come il governo punisca quelli che hanno sempre lavorato (altro che quei fanfaroni degli operai e dei precari...), modesti professionisti da 100 000 euro annui che denunciano l'evasione fiscale (che non si sa bene cosa c'entri: loro i soldi ce li hanno a prescindere dagli evasori) e tanti discorsi della serie che esiste chi è più ricco di me. In conclusione, il governo ha fatto marcia indietro e ora la misura è in forse.
Oltre alla proporzionalità e alla progressività, l'imposizione fiscale può anche essere caratterizzata da regressività e ciò avviene quando, col crescere del reddito, si riduce l'entità del tributo pagato. Ed è appunto regressiva di fatto l'imposta a cui il governo (col placet della Marcegaglia che su Repubblica ha dichiarato che i ricchi italiani pagano già troppe tasse per i suoi gusti...) si affida per risanare i conti: l'IVA.
Verifichiamo infatti gli effetti dell'IVA usando il concetto già visto di utilità. Ipotizzando che sia 100 la quantità di consumo necessaria per la mera sopravvivenza e del 20% l'aliquota IVA (uguale per tutti), il contribuente A che percepisce 110 e spende 100 (giusto per sopravvivere) pagherà 20 di imposta, cioè il 18% ca. del suo reddito; il contribuente B, invece, che gode di un reddito di 1000 e spende 800 (cioè molto di più, ma risparmiando anche molto di più), pagherà 160 di imposta, cioè soltanto il 16%!
Il ricco (pardon, benestante!) così potrà vivere meglio, risparmiare di più e pagare meno tasse del povero. E poco importa che i beni di prima necessità (pane, pasta, farina...) siano sottoposti ad un'IVA inferiore, perché questo "sconto" pesa allo stesso modo su agiati e miserabili, in barba a qualsiasi giustizia sociale.
Insomma, lo spostamento del carico fiscale dall'imposizione diretta a quella indiretta è sempre penalizzante per i ceti inferiori. Si aggiunga anche che esistono beni (ad esempio PC, automobili, telefoni) che il titolare di partita IVA (statisticamente in prevalenza una persona agiata) può scaricare in quanto strumentali per il suo lavoro, ma che poi può utilizzare anche per attività extralavorative. Al contrario, il lavoratore dipendente, non godendo di queste opportunità ed essendo solo consumatore finale, subirà gli effetti inflattivi di un aumento dell'IVA sommato ai consueti arrotondamenti dei commercianti che cercheranno in ogni modo di mantenere intatto il proprio margine di guadagno e, se possibile, incrementarlo.

sabato 20 agosto 2011

A sinistra: socialismo e anarchismo (II)

Dopo il socialismo, occorre esaminare il secondo grande filone del pensiero di sinistra, quello anarchico.
L'anarchismo parte da premesse teoriche assolutamente opposte rispetto al socialismo, poiché mentre i socialisti (soprattutto dopo Marx) il problema sociale nasce dall'ingordigia del singolo, gli anarchici si limitano a constatare che nel mondo esistono forti e deboli e che i deboli tendono ad essere sottomessi all'autorità dei più forti. La liberazione, dunque, non viene dal mettere un morso all'individuo perché non danneggi i propri simili e perché non sia ingordo, ma, al contrario, dall'eliminazionedi ogni potere che lega un uomo a un suo simile per cancellare le basi legali dell'oppressione.
A ben vedere, mentre il socialista trova la risposta ai problemi sociali nelle regole, l'anarchico vuole eliminare anche le poche regole che il liberalismo (comunemente identificato come la fonte dell'oppressione capitalista) ancora impone, ovvero la tutela della proprietà e del rispetto dei contratti, il diritto di famiglia, la difesa comune e la sicurezza. Un libertarismo estremo, che radicalizza di fatto la nemica ideologia liberale, a partire dal presupposto che non possa esistere nessun'autorità esercitata in modo neutro, o addirittura a vantaggio dei sottoposti, ma che il potere sarà impiegato sempre e comunque a beneficio del suo detentore.

All'atto pratico, non è mai esistita nessuna società anarchica: non è possibile che un insieme di persone conviva senza riconoscere al proprio interno un qualche minimo potere, che sia un capo carismatico, un organo elettivo o, addirittura, la comunità nel suo complesso (che non è la semplice somma dei consociati, ma un ente a sè, con una sua personalità). Un'eventuale società anarchica non potrebbe avere regole, perché da un lato ogni decisione dovrebbe essere presa unanimemente da tutti, dall'altro perché in ogni momento un singolo individuo potrebbe decidere di cambiare idea e di fare di testa propria, senza che sia possibile esercitare alcuna coercizione nei suoi confronti.
Dunque l'anarchismo è la negazione dello Stato sociale, perché serve un'autorità centrale per garantire il rispetto dei doveri di solidarietà tra i cittadini, la riscossione dei tributi e l'offerta dei servizi, mentre questo movimento crede che ogni aiuto reciproco debba essere spontaneo e fondato sulla naturale filantropia umana.
Un punto debole è la possibilità della creazione di posizioni di forza di natura extralegale, come può essere l'instaurazioni di una tecnocrazia (dove pochi riescono a farsi ubbidire semplicemente perché hanno competenze di cui gli altri necessitano) o di un dispotismo violento (dove un gruppo di individui abbastanza forti riescono a dominare gli altri facendo ricorso alla violenza). Insomma, all'ambizione del singolo non viene contrapposta la forza del gruppo.
L'unico rimedio che l'anarchismo propone alla nascita, dopo la rivoluzione anarchica, di nuovi rapporti di potere è la rivolta permanente: poiché tutti si opporrebbero ad ogni autorità anche solo potenziale, sarebbe impossibile la formazione di ogni tipo di egemonia. Ciò, però, va contro la natura umana, dato che a molti potrebbe risultare più conveniente accettare un potere anche solo per puro istinto di sopravvivenza (come nel caso di aggressione esterna, di origine umana o naturale), mentre personalità naturalmente gregarie potrebbero spontaneamente fare gruppo per affrontare meglio le sfide della vita. L'uomo è animale politico, affermava Aristotele...


Alla prima parte

venerdì 19 agosto 2011

Qualche nota economica estiva

Da profano, non posso che commentare il dibattito di politica economica di questi tempi limitandomi a rimettere insieme qualche tassello senza cercare di formulare un quadro completo.
Per prima cosa, è evidente che il governo, in mancanza di idee migliori, continua ad essere affetto dalla sindrome di Brunetta (il ministro definito un cretino da Tremonti): colpire gli statali per far scontare loro le colpe altrui. In nome della responsabilizzazione, è stata inserita nel pacchetto l'eliminazione delle tredicesime di tutti i dipendenti pubblici che lavorano nelle amministrazioni che non riusciranno a far quadrare i conti. In parole povere, saranno i lavoratori a pagare il fio per l'incapacità di chi li dirige o per la follia di un ministero che ha messo in programma tagli troppo radicali per essere completamente realizzati.
Naturalmente sarà un disastro per i meno abbienti, sui quali la perdita di una mensilità avrà un peso considerevole, mentre i veri responsabili del mancato raggiungimento degli obiettivi, cioè coloro che stanno a capo delle amministrazioni e dunque percepiscono lauti redditi, probabilmente si accorgeranno appena del castigo di Tremonti. E che dire dei membri del governo, che hanno davvero in mano le sorti della macchina statale? Per loro non ci sarà nessuna scure in caso di errore, perché - dicono - a quei livelli la responsabilità è esclusivamente politica.
Il secondo tema caldo è la controproposta del Pd di tassare per quindici miliardi i capitali scudati, in modo da alleviare, almeno per un anno, l'impatto della correzione dei conti. L'idea, quando tempo fa fu presentata da Di Pietro, provocò una levata di scudi da parte del Pdl e del Pd meno L (che però adesso sembra averci ripensato), perché avrebbe dato l'immagine di uno Stato che non sa stare ai patti, avrebbe neutralizzato ogni possibilità di condono futuro (che danno!) e sarebbe stata incostituzionale (perché retroattiva?). Oggi, invece, che non c'è nemmeno più certezza che quei capitali esistano ancora (potrebbero essere stati dilapidati o nuovamente sommersi, oppure essere appartenuti ad imprese ormai fallite), è il Pd a ritirarla fuori, da bravo partito senza idee, non accorgendosi forse che è proprio adesso che i dubbi di costituzionalità sono più forti.
Sul Corriere della Sera, invece, si propone una imposizione patrimoniale una tantum da 200 miliardi di euro, in grado di abbattere il debito pubblico di più di una ventina di punti. Il tributo colpirebbe il 20% degli italiani, non riguarderebbe abitazioni e titoli di Stato e prevederebbe una possibile restituzione (almeno parziale) futura, quando ormai il peggio sarà alle spalle. In un colpo, infatti, avrebbe lo stesso effetto di un decennio di manovre lacrime e sangue.
Una mossa simile metterebbe al riparo l'Italia dalle speculazioni dei mercati (non servirà emettere titoli di Stato per un certo tempo e, anzi, il Tesoro potrà saldare immediatamente una bella fetta dei propri debiti) e quindi si limiterebbero gli effetti della crescita dei tassi d'interesse che ha messo tutti nel panico nelle settimane scorse. Utopia?
Nessuno, invece, parla più della Torino-Lione, come se l'Italia alla frutta potesse ancora permettersi quel cantiere faraonico che darà lavoro al massimo a qualche centinaio di persone, ma che costerà allo Stato decine di miliardi di euro. Ovviamente i migliori lobbisti sono in moto a Roma per evitare che qualsiasi politico avanzi la proposta di cancellare velleità come questa e il Ponte sullo Stretto.
Al contrario i Radicali chiedono di tagliare l'otto per mille alle confessioni religiose, per fare un po' di cassa. Se l'ideologia non accecasse (come sempre fa), qualcuno si ricorderebbe che, con i tagli agli enti locali e, quindi, ai servizi al cittadino, strozzare la Chiesa e la sua rete di solidarietà è davvero il modo migliore per provocare la catastrofe sociale. Per fortuna, però, il peggio della gerarchia ecclesiastica sarà sicuramente in moto per scongiurare ogni rischio e il peso politico dei Radicali è ormai praticamente nullo.

martedì 2 agosto 2011

Occidente e Sud del mondo faccia a faccia in Salento

La Puglia si è svegliata e ha scoperto che forse c'è qualcosa che non va nel nostro modo di pensare l'immigrazione. Non si parla della rivolta a Bari, di cui le pagine dei giornali sono piene e che è diretta conseguenza dell'idea cretina di un governo cretino di stipare per sei mesi un immigrato, insieme ad altre centinaia se non di più, in un recinto metallico, col risultato di farlo diventare, alla lunga, comprensibilmente arrabbiato. Molto più interessante è invece ciò che accade in Salento tra i braccianti agricoli.
A Nardò, un grosso paese qualche decina di chilometri a sud di Lecce, gli immigrati che ogni estate raccolgono gli ortaggi hanno deciso di incrociare le braccia, stanchi di essere sfruttati come bestie da soma senza diritti, dormendo in tende e baracche e vivendo in balia di caporali armati di mitra. Un modo perverso di produrre ha condotto a ciò che nessuno si aspettava: lo schiavo ha smesso di farsi schiavizzare.
Quello agricolo è diventato un mondo ingrato dove, a fronte dell'aumento dei prezzi degli alimentari al supermercato, i ricavi dei produttori si assottigliano di anno in anno e questa torta sempre più piccola va divisa tra il proprietario del campo e i lavoratori stagionali di cui parliamo. Naturalmente, il primo cerca di limitare il proprio impoverimento a spese dei secondi, sempre che non decida di concedere il terreno per la costruzione di impianti di energia rinnovabile e vivere della semplice rendita della locazione.
Quindi l'agricoltura, l'attività produttiva che ci sfama, muore, ma i braccianti non hanno alcuna intenzione di morire di lavoro per primi in modo da permettere ai coltivatori salentini di vivere un po' più a lungo. Le associazioni di questi ultimi, invece, cercano di negare il problema (più che evidente) sostenendo la piena legittimità di tutti i contratti di lavoro, la massima garanzia per i diritti degli immigrati e - udite udite - il fatto che in moltissimi casi agli stagionali verrebbero concesse retribuzioni molto più alte di quelle dovute.
Ma se perfino gli sfruttabili per antonomasia, ovvero gli immigrati stagionali che sanno che se protestano l'anno prossimo non avranno più l'impiego e dovranno rimanersene nel loro paese, si ribellano, allora forse è indizio che il sistema, fino ad ora vivo anche se moribondo, sta per giungere al capolinea.
Alla faccia del chilometro zero, del made in Italy e del Protocollo di Kyoto, davanti ai prezzi concorrenziali dei produttori esteri converrà importare olio e pomodori piuttosto che acquistarli dai nostri agricoltori, che non possono fare a meno di sfruttare la manodopera immigrata a basso costo se vogliono guadagnare quel che basta per mantenere il tenore di vita occidentale. Modo di vivere che, in questo caso, mette a stretto contatto chi lo paga (la gente del Sud del mondo) con la nostra società che ne beneficia.

venerdì 29 luglio 2011

Lo sconto sull'abbonamento del bus per un impiegato è un orribile privilegio?

Il Fatto Quotidiano locale dell'Emilia Romagna scopre degli inquietanti privilegi nei palazzi del potere della regione e della provincia e del comune di Bologna. Lo scandalo starebbe nel fatto che questi tre enti abbiano inserito nella contrattazione collettiva con i propri dipendenti la possibilità di usufruire di una convenzione, stipulata con l'azienda bolognese dei trasporti pubblici, che permette di avere a prezzo agevolatissimo l'abbonamento annuale per gli autobus.
Forse il cronista ignora che è pratica diffusa tra i datori di lavoro quella di accordarsi con imprese erogatrici di servizi per garantire ai propri dipendenti l'accesso alle prestazioni a costo vantaggioso: mense aziendali, buoni pasto, servizi navetta, tariffe telefoniche speciali e abbonamenti ferroviari sono solo alcuni dei benefit che sono comunemente concessi. Talvolta, invece, ai lavoratori sono concessi prodotti e servizi aziendali a integrazione della retribuzione (pensiamo alle corse gratuite per i ferrovieri) o benefici finanziari (partecipazioni agli utili o azioni).
Gli enti locali dell'articolo hanno deciso di inserire la suddetta clausola contrattuale a vantaggio dei dipendenti e ciò basta a far gridare al giornalista che siamo davanti ad un orribile privilegio, giusto perché, in ossequio a una legge dello Stato, si è fornito un abbonamento per gli autobus a un dirigente pubblico invece che concedergli un aumento salariale (che sarebbe quasi naturale se alla prossima contrattazione si decidesse di togliere questa agevolazione) perché si compri un SUV con cui andare in ufficio...
Un abbonamento è un giro d'affari di 300 euro all'anno (non al mese) e in realtà la perdita per la municipalizzata è (per quanto riguarda la provincia) di 90 euro (sempre all'anno), a fronte di una fonte sicura di entrate e di centinaia di clienti fissi garantiti: è chiaro che se si forniscono migliaia di abbonati uno sconto del 30% può anche sembrare vantaggioso all'esercente.
Se più imprese facessero accordi di questo tipo con le aziende di trasporto pubblico, da un lato elimineremmo molte auto dalle strade, dall'altro garantiremmo alle municipalizzate una fonte sicura di entrate che metterebbe al riparo i loro piuttosto dissestati bilanci. L'acquisto in stock conviene sia al venditore che al compratore.
Più che improprio è il paragone tra questi accordi e le agevolazioni concesse a studenti e pensionati, perché un conto è ciò che l'amministrazione concede come prestazione al cittadino, un conto è la sua azione come soggetto di diritto privato nel rapporto di lavoro. In questa seconda sfera si può opinare l'ammontare totale delle risorse spese (se eccessivo, può essere uno spreco di denaro pubblico), ma non il modo in cui tali risorse vengono impiegate (non si può sindacare il fatto che il lavoratore abbia diritto a buoni pasto piuttosto che ad un bonus in busta paga equivalente).
Si obietta, poi, che gli sconti avverrebbero senza badare al reddito del dipendente. Così si cade nello stesso errore su indicato: non siamo davanti ad una prestazione fornita ai cittadini, ma ad una clausola contrattuale. A tutti i lavoratori è offerta un'opportunità sulla base di una convenzione di diritto privato, indipendentemente dalle condizioni personali e dall'effettivo bisogno (mettiamo il caso del dipendente che abita davanti al proprio ufficio). Il diverso contratto dei dirigenti, non a caso, ha previsto condizioni diverse (nello spedifico più onerose, ma potevano anche, legittimamente, essere migliori) e, nel caso della Provincia, non ha proprio concesso il benefit.
Ma dato che si doveva montare il caso per fare lo scoop, si è deciso di ignorare tutto questo e di sparare una denuncia priva di senso.

mercoledì 27 luglio 2011

Il terrorista di Oslo figlio del nostro mondo

Nella grande operazione di catarsi collettiva avvenuta dopo la strage di Oslo, il terrorista "fallaciano" Breivik ha ricevuto dalla stampa occidentale e da tutta l'opinione pubblica l'etichetta di pazzo. Pazzo perché non è possibile che un europeo normale abbia compiuto un gesto del genere nel pieno delle proprie facoltà mentali. Pazzo perché deve essere antropologicamente quanto di più diverso possibile da noi per non costringerci ad interrogarci su cosa c'è di sbagliato nel nostro civile mondo occidentale.
Parallelamente, l'idea che Breivik possa essere condannato solo a ventun anni di reclusione scandalizza la gente: un mostro simile dovrebbe essere rinchiuso per sempre, si dice!
Ora, delle due l'una: o l'uomo è pazzo, e allora non è responsabile delle proprie azioni e non va punito, ma aiutato, oppure è un lucido criminale stragista che, soffocando ogni senso di umana pietà, ha deciso che massacrare 75 persone a caso è un mezzo idoneo per raggiungere il fine superiore della salvezza della civiltà occidentale.
Ma il folle non è imputabile, a differenza del malvagio, e per questo l'avvocato difensore ha già sostenuto l'infermità mentale del terrorista, in accordo con la stampa e con la vulgata popolare. Ma perché Breivik dovrebbe essere pazzo, se nelle sue 1500 pagine di manifesto non c'è una sola idea originale, ma solo pensieri da tempo ampiamente condivisi da politici e commentatori nostrani?
E' da dieci anni che siamo bombardati di propaganda islamofoba e razzista sui pericoli che la nostra civiltà starebbe correndo, sul fatto che i musulmani starebbero cercando di conquistarci, sul pericolo mortale che la nostra civiltà e la democrazia stessa correrebbero a causa delle ondate migratorie. Le moschee sono bollate come covi di terroristi, chi denuncia il razzismo viene etichettato come un dhimmi venduto all'Islam e i partiti xenofobi prendono fiumi di voti e in alcuni paesi (come il nostro) vanno al governo.
La violenza e la morte sono state magnificate da politici e giornalisti embadded che ci raccontavano cronache trionfali sulle guerre in Afganistan e Iraq, dove un massacro come quello di Falluja, degno di un Tamerlano in cacciabombardiere, era minimizzato e considerato indispensabile per vincere. Anche le garanzie processuali minime sono state derogate in nome dello scontro di civiltà in atto, della guerra del bene contro il male da combattere a costo di qualunque prezzo in vite umane (mediorientali).
Per la sicurezza di uno Stato, si è giustificato il massacro dell'operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza, l'uccisione di una decina di pacifisti a bordo della prima Freedom Flotilla e l'occupazione perdurante di gran parte dei Territori Palestinesi. Per il contenimento del fenomeno migratorio, invece, si sono chiusi gli occhi davanti ai naufragi dei barconi dei clandestini nel Mediterraneo e i paesi dell'Europa Meridionale si sono palleggiati centinaia e anche migliaia di esseri umani per non doversi accollare personalmente l'onere del mantenimento e dell'eventuale rimpatrio.
Gente come Oriana Fallaci, Marcello Pera, Magdi Cristiano (o Crociato?) Allam e compagnia cantando si è mantenuta per anni seminando odio, qualche sparuta donna velata è stata resa un caso mediatico mondiale e verso chiunque chiedesse moderazione davanti alla deriva xenofobo-populista si è usato l'epiteto di radical chic, liberal ignaro delle sofferenze e delle vessazioni subite dalla gente comune (causate dalla presenza di una decina di donne col niqab in tutta la Francia?), collaborazionista col nemico dell'Occidente...
Adesso, dopo che per dieci anni si è seminato tutto questo ed è diventato normale pensare idiozie del genere, una persona che condivide queste idee e che ha l'idea idiota di metterle in pratica personalmente, senza sguinzagliare qualche aereo da combattimento a farlo per sè, viene bollata come pazza. No, Breivik non è un pazzo se non nella misura in cui tutta la nostra società è in preda ad una pazzia collettiva: Breivik è solo il frutto più maturo di un'ideologia intrinsecamente violenta e intollerante che si è diffusa capillarmente in tutto l'Occidente e che ancora oggi, dopo Oslo, nessuno si sogna di ripudiare.

martedì 26 luglio 2011

Notti greche

La Grecia pare che si salverà, grazie alla mancia europea (anche nostra). Ogni tanto ci tocca ripianare il frutto del bengodi altrui.

Bucchi su Repubblica

In compenso i greci sono efficientissimi quando si tratta di respingere le barche dei pacifisti, su richiesta dei loro nuovi amici.

lunedì 25 luglio 2011

Otto per mille, una questione di trasparenza

Un leitmotiv dell'anticlericalismo è l'esistenza dell'otto per mille, vero scandalo e segno della corruzione insanabile della Chiesa cattolica. Non tollerano, questi critici, che una simile somma di denaro possa giungere al clero con questa regolarità e non accettano che la maggior parte di questo contributo sia destinata al sostentamento degli ecclesiastici e alle spese di gestione dell'organizzazione.
Al contrario suscitano molta ammirazione quei gruppi protestanti (Valdesi in primis) che dichiarano di impiegare tutte le somme dell'otto per mille per opere di carità, senza tenere nulla per sè e autofinanziandosi in altro modo. Appunto, questo è il vero problema: in quale altro modo si autofinanziano?
Purtroppo, a differenza che per l'otto per mille, di cui conosciamo l'ammontare e l'impiego di ogni beneficiario, di queste altre fonti di finanziamento delle organizzazioni religiose (Chiesa cattolica inclusa) non sappiamo e non possiamo sapere niente. E' Dio che fa piovere manna dal cielo? Oppure sono rendite finanziarie? O, infine, sono semplicemente elargizioni di misteriosi donatori che per noi restano anonimi, ma che per il ministro di turno hanno nome, cognome e volto, oltre che interessi da tutelare?
Valutando con scetticismo la prima ipotesi e sospendendo il giudizio sulla seconda, resta che la maggior parte delle entrate fuori dall'otto per mille sono rappresentate dai donativi dei privati, che siano fedeli oppure no.
Se sono fedeli, è chiaro che ci sarà chi potrà donare di più e chi potrà donare di meno: il ministro del culto sarà più attento a non urtare la suscettibilità di chi dona cinque euro alla settimana, oppure di chi ne versa cinquecento più altrettanti per le ricorrenze particolari? E come può, per esempio, un religioso cristiano decidere di scagliarsi una domenica contro la ricchezza se il suo sostentamento dipende dal denaro di un possidente generoso? E, tra i musulmani, sicuri che il tenore dei sermoni dell'imam non varierà a seconda di chi sarà il ricco contribuente straniero che sosterrà la moschea?
Se invece le donazioni provengono da persone estranee alla comunità, lo scenario diventa allora tragico: che interesse hanno costoro a contribuire? E, se contribuiscono in modo rilevante, possibile che non avranno un peso abnorme nella vita religiosa, tanto da riuscire a controllare da dietro le quinte il ministro così dipendente dalla loro generosità?
Infine, alcuni gruppi religiosi (come i veterocattolici) sostengono di essere indipendenti perché i loro ministri, non percependo nulla dalla comunità, hanno l'obbligo di lavorare per vivere. Ottima cosa, il lavoro teoricamente garantisce l'indipendenza economica. Teoricamente, perché occorre vedere che lavoro è: un ministro negoziante, per esempio, potrebbe non aver voglia di fare affermazioni scomode che allontanino i suoi clienti; un ministro lavoratore dipendente, invece, potrebbe doversi ogni tanto chiedere se ciò che predicherà favorirà o meno il suo licenziamento, visto che prima di rispondere a Dio o ai fedeli dovrà garantirsi la benevolenza del datore di lavoro che gli dà di che vivere.
Tornando alla Chiesa cattolica, qualsiasi lobby farebbe i salti di gioia se venissero strappati alla Chiesa gli unici soldi sicuramente puliti che essa gestisce. Nel mare delle dichiarazioni dei redditi, non ha alcun peso la minaccia del singolo di dirottare il proprio contributo altrove se la Chiesa non dovesse essere abbastanza pronta ad esaudire le sue richieste. Al contrario, le buste al parroco o al vescovo hanno un potere di convincimento e di ricatto notevolmente superiore.
Peggio ancora va se l'autofinanziamento dell'organizzazione religiosa proviene da attività economiche, ovvero da rendite finanziarie: ogni volta che si entra nel mondo del lucro ogni scopo ideale muore a vantaggio del torbido tornaconto economico immediato.

sabato 23 luglio 2011

Una gita in elicottero per Renata Polverini

Esistono tre modi per andare da Roma a Rieti, due accessibili a tutti, uno riservato a pochi. Il primo è imbottigliarsi in macchina (o in bus: € 4,10 sulle linee Cotral) sulle autostrade o sulle strade statali (che sono in gran parte regionalizzate), il secondo è prendere un treno regionale (cioè cofinanziato dalla Regione Lazio) fino a Terni, per poi lì cambiare (non esiste ancora il diretto!) e così raggiungere la destinazione, al costo di € 11,95 in prima classe e 8,60 in seconda. Così sono tenuti a fare tutti i cittadini del Lazio.
Esiste, però, una cittadina più cittadina degli altri che può permettersi un mezzo alternativo per raggiungere la Festa del Peperoncino reatina senza dover subire i disservizi della viabilità della regione che presiede e potendo in questo garantirsi un arrivo molto più ad effetto. Parliamo, naturalmente, di Renata Polverini, la presidente del Lazio che ha vinto le elezioni sull'onda dello scandalo dei trans di Marrazzo e contestando il nichilismo morale dell'avversaria Emma Bonino, e del suo formidabile elicottero (pubblico?) giunto agli onori delle cronache nazionali.
Per prima cosa, viene da chiedersi quanto è costata ai contribuenti questa gita/inderogabile impegno istituzionale che era così urgente e cruciale da meritare persino la creazione di un ponte aereo tra Roma e Rieti. In secondo luogo ci chiediamo se il simpatico signore, aspirante picchiatore, che la Polverini si portava accanto abbia un regolare contratto da body guard o, quantomeno, da camicia nera autorizzata.
In sostanza, però, il problema è il segnale che la Polverini ha lanciato a tutti coloro che vivono e viaggiano in Lazio: a lei non gliene importa nulla se le strade sono o meno insufficienti, il servizio ferroviario lacunoso e il complesso del sistema dei trasporti non idoneo a permette di muoversi agevolmente da un capoluogo all'altro, perché tanto lei ha corsie preferenziali e mezzi così esclusivi da non rischiare in nessun momento di provare sulla propria pelle l'esperienza delle persone comuni..
Se il modello ideale sarebbe quello del sindaco newyorkese che gira in metropolitana perché riesce a garantire ai cittadini il servizio che vorrebbe per sè, quello peggiore è la Polverini che se ne frega del servizio che lei offre alla gente comune perché, a spese nostre, si garantisce una situazione non solo migliore dal punto di vista quantitativo (come sarebbe una tribuna VIP, un'auto blu o un volo privato), ma soprattutto da quello qualitativo: nessuno - o quasi - può bypassare in elicottero come lei la pessima viabilità per Rieti.
A Maria Antonietta, che in mancanza di pane suggeriva al popolo di mangiare brioches, poteva essere riconosciuta la scusante di una grottesca ignoranza. Al contrario, l'ex sindacalista di destra ha dimostrato il menefreghismo pieno tipico di chi è consapevole dei propri privilegi ed altrettanto consapevole che la gente comune non può avere il diritto nemmeno di sognarsi di goderne di simili. Una mentalità, usando un termine molto in voga, di casta.

giovedì 21 luglio 2011

La fabbrica dei santi e il prodotto Pio XII

Il principale rimprovero che si muove a Pio XII è il suo silenzio: silenzio (e simpatia) davanti al consolidamento del Nazismo, silenzio davanti alle persecuzioni antiebraiche (ma non solo), silenzio davanti ai rastrellamenti nella stessa Roma. Di contro, coloro che da parte cattolica vogliono difendere la figura del Principe della Chiesa, sostengono che il silenzio all'epoca fosse indispensabile per evitare che le truppe tedesche avviassero per ritorsione una vera persecuzione ai danni della Chiesa: il basso profilo sarebbe servito all'azione di aiuto sotterraneo portata realmente avanti dalla Curia. A riprova, si presenta il caso dell'Olanda, dove la conferenza episcopale locale, a fronte del silenzio di tutte le altre confessioni religiose, condannò i nazisti ed espose i cattolici ad una dura rappresaglia.
Oggi, invece, Benedetto XVI, il paladino della canonizzazione di Pio XII, fa la voce grossa contro la Cina, paese in cui esistono due cattolicesimi, il primo clandestino, in comunione con Roma e perseguitato dal governo, il secondo (minoritario) ufficiale e costituente la "Chiesa patriottica". Si minaccia quindi l'anatema contro tutti i cattolici che accetteranno cariche ecclesiastiche dalla Chiesa di regime, si condanna Pechino per la rottura dei negoziati con la Santa Sede e si pretende la piena libertà religiosa. Per rinfrancare i cristiani di laggiù, la Curia dorata ricorda gli esempi di Stefano e dei martiri dei primi secoli, invitando tutti a rimanere saldi e coerenti nonostante le avversità del mondo.
Dunque, il vescovuccio cinese senza pretese di santità deve resistere a qualunque costo davanti alla minaccia concreta delle leggi penali del suo paese, mentre un romano pontefice, che tra qualche anno ci ritroveremo sugli altari, faceva bene a tacere e a far finta di nulla per tutelarsi dall'eventualità di un'ipotetica repressione nazista ai danni della.... totalità della popolazione italiana dell'epoca!
E' lampante il paradosso di una Curia che da un lato cerca di far rispettare una plurimillenaria convinzione costante della Chiesa (la coerenza), mentre dall'altro porta avanti un assurdo processo canonico per il più chiacchierato pontefice del XX secolo, probabilmente solo per far felici quei tradizionalisti che vogliono liquidare come un'età di mezzo tutto ciò che è avvenuto dal tempo di Giovanni XXIII e della sua infausta idea di concilio alla svolta conservatrice dell'attuale pontificato. Oppure, ma sarebbe ancora più triste e patetico, Benedetto XVI vuole lanciare un messaggio ai vari sedevacantisti: il pontefice attuale è il successore legittimo e diretto di Pio XII.
Altre ragioni per canonizzare l'ennesimo santo del Novecento non ce ne sarebbero. Tutta la faccenda, al contrario, rimarca la distanza siderale tra l'idea originaria di santificazione (il popolo che riconosceva in una persona scomparsa veramente speciale un sicuro salvato) e ciò che l'istituto è diventato dopo la deregulation di Giovanni Paolo II: una fabbrica in serie di centinaia di nomi sconosciuti alla quasi totalità dei cattolici. Ormai non è più il santo come persona ad essere un messaggio, ma è la statistica dei santi a voler dimostrare (dichiaratamente) che la Chiesa esisterebbe ancora e che la salvezza è alla portata di tutti.
Il risultato non può che essere uno svuotamento del significato della canonizzazione con conseguenti disaffezione della gente per i santi (salvo che non si tratti del canonizzato della parrocchia o del movimento ecclesiale di turno) e ulteriore secolarizzazione della società.

sabato 16 luglio 2011

L'escort (presunta) e il Presidente. La nuova serie

Mi hanno obbligata a parlare per ricattare Silvio Berlusconi, rivela Patrizia D'Addario, l'escort che tempo fa sputtanò (letteralmente) Silvio "Cesare" Berlusconi. Intervistata in esclusiva su Libero (ma la versione completa c'è solo nell'edizione cartacea), ci informa che sarebbero state delle forze oscure ad utilizzare lei per colpire il Presidente, povera vittima di un sinistro complotto. Ma andiamo con ordine.
Già il cappello in prima pagina ci informa che la D'Addario non sarebbe mai stata un'escort e che l'onesta signora è venuta a Roma per essere ricevuta dal suo compagno di lettone di Putin. Per fortuna Cristiana Lodi, l'intervistatrice, ci assicura che loro di Libero si sono immediatamente presi la briga di avvertire il Cavaliere della visita imminente.
Poi si ricostruiscono i fatti in modo un po' fantasioso, sostenendo che il sexgate pugliese sarebbe stato il preludio dell'attacco togato milanese per il caso Ruby, quando in realtà l'indagine della procura di Bari sul giro di Tarantini è un'inchiesta del tutto indipendente rispetto a quella di Milano, nata dalla famosa telefonata nottura di Silvio a una questura volta a far liberare la nipote di Mubarak.
Non vengono negati i rapporti sessuali tra "Patty" e Silvio, nè che lei avrebbe registrato tutto (del resto, le abbiamo sentite tutti le registrazioni), ma si sottolinea più volte che la donna non sarebbe mai stata una prostituta, che quelle notti sarebbero state solo delle scappatelle del Premier (che negli anagrammi fatti fare alle olgettine era sempre l'unico boss virile - Silvio Berlusconi), uomo premuroso e gentile. Lei non avrebbe avuto alcuna intenzione di ricattarlo pubblicando i nastri, mentre la sua successiva esposizione mediatica sarebbe stata architettata e favorita dal suo avvocato Maria Pia Vigilante.
Ma perché un'amante dovrebbe registrare gli incontri amorosi? Perché, ci spiega Patty, il suo ex la picchiava e, per denunciarlo, aveva dovuto cominciare a registrarlo: il registratore da allora sarebbe il suo angelo custode che le garantisce di poter sempre provare ciò che fa e subisce. Eh, sì, lei non è andata a letto col Papi per soldi, ma perché rimase infatuata dal fascino di un uomo da cui temeva di essere aggredita...
Ma perché la finta escort avrebbe reso pubbliche le registrazioni? Ma, ovviamente, perché delle forze oscure l'avrebbero perseguitata a lungo: avrebbe ricevuto minacce (da parte di chi e di che tenore?), avrebbe subito un furto in casa (anch'io una volta, ma non rilascio interviste a Libero per denunciare complotti) e sarebbe stata perfino violentata da un carabiniere, mai identificato (proprio come l'aggressore di Belpietro, il direttore del giornale) ed entrato nel suo appartamento (in alta uniforme, forse) probabilmente per cercare i nastri (questo deve averlo compreso grazie a delle sue sconosciute doti telepatiche).
Lei aveva paura e l'avvocato le avrebbe suggerito di depositare in Procura quel materiale per non essere accusata di falsa testimonianza (in che procedimento?) ed estorsione (ai danni di chi?), assicurandole anche che, se avesse denunciato, avrebbe avuto soldi e celebrità (e la finta escort Patty per soldi e celebrità avrebbe diffamato l'uomo più potente d'Italia?). Così la poverina è andata dai magistrati e, tra pressioni continue da una parte (ma quale?) e gli inquirenti dall'altra, avrebbe montato il caso.
Ma chi avrebbe rivelato in giro che la D'Addario aveva quei nastri? Sarebbe stata Barbara Montereale, la escort che andò con lei a Roma per conto di Tarantini. Ma che cosa ci facesse una finta escort in compagnia di una vera escort e di un noto protettore come Giampiero Tarantini non ci viene spiegato.
Ora, continua lei, è rovinata, non ha avuto i soldi e la celebrità che le avevano promesso e la sua immagine è compromessa. Non è che adesso sono stati quelli di Libero a prometterle nuovi soldi e celebrità per farle rilasciare quest'intervista?
Lui ha ragione quando afferma che certi magistrati lo perseguitano ingiustamente e lo colpiscono nella vita privata solo per cancellarlo dalla scena pubblica, deduce la pseudo-escort, ripetendo una delle frasi fatte della stampa pidiellina. Ma da cosa lo ha capito? E poi, non era stato il suo avvocato a dirle di andare in Procura? Non erano state delle forze oscure a perseguitarla? Che c'entrano ora i magistrati?
Patty si lamenta di non aver nemmeno potuto fare il proprio residence per scadenza dei permessi (insomma, Silvio l'ha tradita), anche se in realtà lei non aveva domandato nulla al Presidente, fu lui a prometterle aiuto per poi non riceverla più. E così la D'Addario, spinta dalle forze oscure (la Spectre?), decise di sputtanarlo (quindi, caro Silvio, qualunque cosa deciderai di concederle quando ora vi incontrerete a Roma, cerca di non essere il solito Pinocchio, perché lei è vendicativa!). Ma allora a spingerla a rivelare tutto fu il tradimento di Silvio o l'azione delle forze oscure?
Quindi il suo avvocato le avrebbe posto un'imboscata programmandole un'intervista a sua insaputa e lei, dopo aver pianto perché non la voleva rilasciare, si sarebbe lasciata convincere (dall'idea della celebrità o dalla voglia di vendetta?), per tutelare la famiglia (ma da chi?). Ma i perfidi giornalisti che hanno fatto nella notte, prima di pubblicare? Avrebbero alterato le bozze (e perché, allora, nelle interviste video e audio ha sempre confermato tutto? Era una sua imitatrice a rilasciarle?) e poi le avrebbero fatto firmare le liberatorie a tradimento.
Quindi la finta escort spiega che lei in realtà è una donna d'un pezzo, che si sarebbe finta prostituta solo per risultare credibile quando denunciò il suo ex per sfruttamento della prostituzione, spacciandosi cioè per sfruttata (ma se fosse così la D'Addario sarebbe nientemento che una calunniatrice) in modo da conquistarsi la fiducia degli inquirenti. Per questo Silvio non avrebbe mai potuto sospettare che lei fosse una escort: perché lei non lo era mai stata (ma forse il giro di papponi e prostitute che frequentava avrebbe potuto far scattare qualche campanello d'allarme nell'entourage di Cesare).
Infine ci racconta che Tarantini sarebbe stato per lei un mezzo sconosciuto. Quando si incontrarono le avrebbe proposto subito di andare a cena dal Presidente: facciano attenzione, dunque, le signore per bene che incrociano Giampi Tarantini, perché lui potrebbe invitarle a sorpresa ai festini del Cavaliere!
Ma non è vero che il mezzano l'avrebbe pagata. Semplicemente le avrebbe dato un rimborso spese per il viaggio, cioè mille euro (Bari-Olbia-Villa Certosa è un itinerario piuttosto costoso, vedo), invece dei duemila inizialmente pattuiti, ma con la calusola di passare la notte con Silvio. Strano rimborso spese, che valuta mille euro il tragitto tra il soggiorno e la camera da letto di Villa Certosa, ma non considera che Patty dovette pagarsi l'albergo per quella notte.
Così finisce l'intervista, accompagnata da un fondo di Maurizio Belpietro (altro specialista di complotti e agguati) che spiega perché ora cambierebbe tutto. In realtà, visto che la nuova versione è identica a quella ufficiale propagandata dal Cavaliere e dai suoi giornali, non cambia assolutamente nulla: il Presidente del Consiglio si è reso ricattabile entrando in giri poco limpidi, si è messo nelle mani di una donna che, allettata dai soldi e dalla celebrità, lo ha sputtanato sulla scena globale e si è messo nelle condizioni di perdere quel poco di credibilità che aveva a causa della propria libido.
Molti passaggi dell'intervista confermano la volubilità della (presunta?) escort e la sua indole vendicativa: lei rivela e spiffera ogni volta che vede che non ottiene ciò che vuole o ciò che le è stato promesso (il residence, la protezione, il denaro), non curandosi delle vittime che miete e non rilettendo sulle proprie azioni.
Quali sarebbero le forze oscure di cui continuamente si parla, poi? Sono citati solo un carabiniere senza volto e nome, l'avvocato dell'intervistata, le procure di Bari e Milano e qualche giornalista di gossip. Sarebbero queste le entità in combutta per sovvertire la democrazia italiana? Davvero un magistrato e un avvocato baresi sarebbero gli artefici di un complotto ai danni dell'uomo più potente d'Italia?
Se anche fosse vero che queste non meglio determinate forze oscure avrebbero architettato tutto per colpire il Premier e l'Italia intera, allora, noi come nazione, possiamo permetterci di avere un capo del governo così facilmente ricattabile? La nuova versione della D'Addario non rende, paradossalmente, ancora più precaria la posizione di Berlusconi?

venerdì 15 luglio 2011

Prendi i soldi e scappa!

In un conciliabolo notturno, degno di una masnada di lestofanti, i nostri politici hanno deciso di dimostrare al paese quanta voglia hanno di condividere l'austerità che impongono a tutti gli altri. La commissione bilancio del Senato ha infatti bocciato i tagli all'indennità dei parlamentari.
Esistono due categorie di statisti. Alcuni sono bravi a curare la propria immagine e cercano sempre di mostrare ai governati che si è tutti sulla stessa barca, che non si chiede a nessuno più di quanto non si sia disposti a sacrificare personalmente (ovviamente è una finzione, ma quantomeno una finzione esemplare); altri, al contrario, sono gli emuli di Maria Antonietta che, assolutamente ignari delle condizioni dei comuni mortali, ostentano i propri privilegi e vi ci si abbarbicano fino all'ultimo. Questa seconda categoria, in ogni tempo, è quella più odiosa.
I nostri, indegni perfino di essere definiti statisti, hanno in pratica fatto la mossa peggiore possibile: prima hanno creato aspettative, assicurando che si sarebbero allineati le indennità alla media europea (sempre a partire dalla prossima legislatura, ovviamente!), che avrebbero contribuito al risparmio tagliando i costi della politica e tanti altri begli annunci. Poi, di notte e di nascosto, si sono rimangiati tutto e hanno confermato il sospetto di molti, ovvero che si resterà allo status quo.
Tutto ciò, in un periodo in cui tutti gli italiani sono chiamati a fare sacrifici per il bene comune ed una guida seria e affidabile sarebbe manna dal cielo, è non solo vergognoso per il decoro, ma anche suicida per la credibilità delle nostre istituzioni politiche.
Ma ancora più suicide sono le motivazioni portate. La prima è che le indennità così alte sarebbero indispensabili per garantire l'indipendenza e l'incorruttibilità del parlamentare. Tradotto, occorrono per tenere alti i prezzi dei vari Scilipoti, altrimenti tutti se li potrebbero permettere...
In secondo luogo, non si possono abbassare gli assegnoni a livello di media UE, perché non ovunque il costo della vita è uguale: in Italia, per esempio, il costo della vita è inferiore rispetto a quelli tedesco e francese, eppure i nostri parlamentari vengono remunerati in modo ben più lauto di quelli di Francia e Germania.
La terza fondamentale ragione (e questa l'ha esposta Sanna del Pd) è la diversa consistenza demografica dei vari paesi: eh, già, i mille parlamentari italiani, che governano una popolazione leggermente inferiore rispetto ai loro altrettanti colleghi francesi, devono pur guadagnare un po' di più!
Nel grande banchetto collettivo celebrato la notte scorsa, non c'è stata opposizione: tutti i commissari, unanimenente, hanno pensato bene di affondare i tagli e di salvare le proprie abbondanti retribuzioni presenti e future. A Palazzo, anche in tempi di fame, la festa deve continuare.

ADDENDA
Dopo l'articolo (che basato su ciò che due quotidiani hanno scritto, Il Fatto e Libero) aggiorno su ciò che è facile da trovare sull'argomento. Si tratta della votazione su un parere, quindi di un atto non vincolante, ma che comunque dovrebbe avere il suo peso, visto che tutti i gruppi parlamentari hanno concordato sull'oggetto. Inoltre, in un vortice di ambiguità, la Commissione ha anche auspocato maggiori interventi sui costi della politica (ma evidentemente senza toccare le indennità?) e sembra che lo sguardo sia caduto sugli extra dovuti a deputati e senatori con incarichi particolari e benefit non meglio determinati. Belle dichiarazioni di intenti, ma l'ostilità ad interventi sulle indennità parlamentari lascia comunque attoniti.
Il motivo della mancanza di queste informazioni nel post originale era appunto la loro assenza nei due articoli usati come fonte. In particolare, l'articolo del Fatto appare come un riassunto di quello di Libero (!), un pezzo di Franco Bechis (inaffidabilissimo cronista dedito al sensazionalismo). E' inutile che sul Fatto cerchiate addende, perché non ne troverete...

mercoledì 6 luglio 2011

Le responsabilità del nostro paese

L'Italia non può sottrarsi alle proprie responsabilità ammonisce il presidente Napolitano, ricordando alla politica i propri imprescrittibili doveri. Ma a quali responsabilità si riferisce?
Non alla responsabilità verso quelle migliaia di invalidi che rischiano di vedersi togliere l'assegno perché non troppo disabili. Nemmeno alla responsabilità verso gli studenti svantaggiati che dovranno vedersela anche l'anno prossimo con un organico degli insegnanti di sostegno ridotto all'osso. E neanche a quella verso i pensionandi che forse dovranno lavorare qualche anno di più per guadagnare qualcosina di meno, mentre le spaventose pensioni dei parlamentari vengono dichiarate intangibili. Non c'è chiaramente responsabilità verso i poliziotti e carabinieri che subiranno un'altra volta la scure del governo, mentre vengono spediti in Val di Susa a picchiare i manifestanti in modo da permettere all'Italia di spendere una quindicina di miliardi di euro per 70 km di ferrovia.
Napolitano non parla della responsabilità dello Stato verso gli ammalati, che dovranno assistere impotenti al taglio lineare al budget della sanità. Sembra che non esista nemmeno una responsabilità verso gli studenti, visto che il ministero dell'istruzione quest'anno opererà altri tagli, o i ricercatori, verso quali lo Stato è sempre stato irresponsabile. Chiaramente non c'è nessun dovere nemmeno verso il pubblico impiego che dovrà fare la propria parte per il bene comune.
Verso chi è responsabile, quindi, l'Italia? Ma è responsabile sul piano internazionale, naturalmente.
Certo, non si parla del dovere di cooperazione internazionale: i fondi per gli aiuti ai paesi poveri restano insignificanti e, talvolta, qualche distratto funzionario si dimentica perfino di spedirli ai destinatari... Ma non sono questi i nostri indefettibili obblighi verso il resto del mondo.
Le responsabilità italiane sono le missioni militari all'estero: garantire in Afganistan la presenza a tempo indeterminato di un corpo di occupazione - pardon, di ricostruzione e democratizzazione- per non sfigurare con gli USA o investire qualche altro miliardo di euro nel bombardamento della Libia, paese a cui abbiamo sganciato fiumane di denaro fino a qualche mese fa. Questo è l'interesse cruciale del paese.
Certo, ci sono anche altre parimenti degne responsabilità interne, come quella verso gli imprenditori della Cricca o della P4 che si occuperanno del cantiere TAV e quella verso le cosche che gestiscono il movimento terra sull'Aspormonte sbancato per la costruzione del Ponte sullo Stretto. Per questi non c'è mai crisi, ma anzi, lo Stato deve dimostrare fermezza contro tutti i contestatori. Altrimenti ne va del buon nome dell'Italia...

A piè di pagina, noto che non è nemmeno più avvertita la necessità di eliminare le provincie.

martedì 5 luglio 2011

Il paradigma islandese

L'Islanda è sempre stato un paese marginale, sempre escluso dal grande palcoscenico europeo e ignorato dall'opinione pubblica occidentale. L'isola atlantica, conosciuta dai più solo per i geyser e per le saghe, è stata invece protagonista negli ultimi due anni di una storia (quasi tutta islandese) che nelle nostre TV non è stata raccontata, ma a cui molti sulla rete guardano con ammirazione.
Qui si trova una breve sintesi della vicenda.

Personalmente, considero questo episodio come paradigmatico della perdita di responsabilità delle società civili democratiche occidentali.
In parole povere, i governi eletti dai cittadini islandesi, col pieno sostegno dei cittadini islandesi, hanno scialato le risorse pubbliche e si sono indebitati fino al collo pur di non costringere i cittadini islandesi a pagare più tasse o a rinunciare a qualche servizio: si è fatto esattamente ciò che fece Craxi da noi in Italia, cioè garantire il bengodi a debito, fino ad esaurimento.
Poi è arrivata la crisi, il sistema che piaceva tantissimo agli islandesi ha fatto crack ed il governo si è trovato inseguito dai creditori. Qualunque lettore di questo blog, in questi casi, sarebbe costretto a pagare fino all'ultimo centesimo perché si troverebbe gli ufficiali giudiziari a casa per il pignoramento. Ma gli islandesi, con proteste di piazza, hanno costretto alle dimissioni il governo che fino a pochi mesi prima incensavano per le sue politiche suicide, costringendo il nuovo esecutivo a non pagare i debiti e dichiarare bancarotta, ovvero fallimento di Stato.
Io sono un convinto democratico e credo che i popoli abbiano il diritto di governarsi da soli. "Honor onus", dicevano i latini, un potere è un onere: se si elegge il proprio governo, allora si è responsabili per ciò che fa tale governo. Gli islandesi hanno portato all'esasperazione l'infantilità che purtroppo sempre di più flagella le nostre società e si sono rifiutati di pagare il disastro che i loro rappresentanti hanno combinato.
Problema delle banche? Non solo, ma anche di qualsiasi governo che verrà, visto che uno Stato irresponsabile fa molta fatica a trovare credito a buon mercato. Gli islandesi, da domani, pagheranno tassi di interesse stratosferici per i loro titoli e dovranno sottrarre risorse pubbliche a servizi e investimenti.
Naturalmente auguro loro che si riescano a trovare soluzioni alternative, ma i precedenti storici non lasciano ben sperare. Sembra di essere in una sorta di Spagna seicentesca, dove si vive sopra le proprie possibilità, si combattono guerre globali a debito e si confida in una prosperità che si rivela ogni anno più precaria.
Anche questo ci insegna la vicenda islandese, un monumento a questo nostro Occidente sempre più scriteriato. Temo che, più di censura, si debba parlare di autorimozione, sia da parte del mainstream (che tace), sia da parte di coloro che invece cercano laggiù un modello da imitare.

lunedì 4 luglio 2011

I difensori dell'anarchia della rete

Libertà è una delle parole magiche del nostro tempo. Le peggiori disuguaglianze sociali e globali sono giustificate in nome della libertà, i tentativi di limitazione dell'attività inquirente sono motivati con la tutela della libertà del cittadino, una coalizione (poi diventata partito) ha scelto come nome la parola libertà...
L'ambiente ideale per la retorica della libertà è stato trovato nella rete, quello strano mondo parallelo in cui, protetti dall'anonimato, tutti pensano di poter fare ciò che vogliono, i freni inibitori si allentano e diventano spontanei e naturali atti che nel mondo reale (ma ha senso questa distinzione?) non avrebbero cittadinanza. Una realtà anarchica in cui molto è gratis, popolare è sinonimo di buono, il vero è ciò che si dice e quello che conta è vendersi bene, perché il successo può anche trasformarsi in molto denaro.
Ogni tentativo di fissare dei limiti è denunciato dagli internauti come un'introduzione della censura. La libertà della rete è considerata così tanto un bene in sè che nessuno si sorprende o si indigna se in un paese civile come la Svezia un partito politico mette al centro del proprio programma la tutela della pirateria informatica, ovvero la garanzia che sul PC tutto sia permesso e nulla possa essere vietato, per quanto appaia immorale e contrastante coi più basilari principii di diritto.
Tra un paio di giorni l'Autorità Garante per le Comunicazioni voterà una deliberà il cui contenuto autorizzerà la chiusura coatta dei siti internet in cui si registreranno violazioni del diritto d'autore. Già è stato lanciato l'allarme su tutta la rete: è un cavallo di Troia per cercare di imbavagliare le voci libere! Dunque il problema non è che si commettano illeciti sulle pagine web, ma che qualcuno cerchi di porre un freno a queste infrazioni con l'unico strumento possibile, ovvero l'ammonizione e, dopo un contraddittorio, l'eventuale oscuramento.
Si può obiettare che una proposta del genere violerebbe gravemente la riserva di giurisdizione prevista dall'articolo 21 della Costituzione:
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria
Il blocco del sito, dunque, potrebbe essere autorizzato solo dal giudice e un'autorità amministrativa indipendente, pur garantendo il contraddittorio, non potrebbe vedersi attribuita tale facoltà.
A leggere meglio l'articolo, però, ci si accorge subito che questa tutela è limitata unicamente alla stampa: un sito (come questo che leggete) che contiene un desclaimer che nega la natura giornalistica delle pubblicazioni non dovrebbe essere così tutelato.
Un secondo allarme giunge dall'Europa: l'Unione sta per approvare una direttiva che permetterà una chiusura più rapida dei siti contenenti materiale che si presume pedopornografico. Qualunque persona di buon senso - si immagina - concorderà sul dovere di tutela dei minori e sulla necessità di combattere contro la pornografia infantile. Ma così non è e in Germania si raccolgono firme per bloccare il progetto perché si teme una restrizione della mitica libertà della rete.
Se la direttiva riguardasse le pubblicazioni cartacee, probabilmente il dibattito interesserebbe solo i giuristi e gli operatori del settore, ma dato che si parla di internet, allora il coinvolgimento è più sentito: tra la tutela dei minori e l'anarchia della rete moltissime persone ritengono più importante la seconda, così che ora il Parlamento Europeo sarà chiamato a riesaminare la questione.

Che la rete sia un fondamentale presidio della libertà d'espressione è vero, perché è su di essa che tutte le posizioni minoritarie riescono a trovare la propria unica vetrina. Parliamo di complottisti, sessisti, neopagani, atei anticattolici estremisti, fondamentalisti islamici, omofobi, antisemiti, neonazisti, negazionisti, islamofobi esagitati, provocatori, fanatici religiosi di varia natura, settaroli e spiritualisti allucinati: una galassia di voci escluse dal dibattito pubblico, spesso e volentieri sgradevoli se non disgustose. La libertà da tutelare, dunque, è la loro, non quella di pirati informatici e maniaci sessuali.