L'intervento di oggi è il primo di carattere agiografico. Agiografico non solo perché parla di un uomo, Oscar Arnulfo Romero, per il quale è in corso un processo di canonizzazione e che è già stato riconosciuto come martire dalla Chiesa Anglicana. Sarà agiografico soprattutto perché la storia che narra, assolutamente reale, ha tutto l'aspetto delle antiche agiografie, dove la vita del santo segue un andamento didascalicamente ben definito e forse anche prevedibile: un'esistenza ordinaria in principio, un punto di svolta (la conversione), la vita rinnovata e, molto spesso, il martirio finale.
La storia comincia nel 1917, quando Oscar Romero nacque nello staterello centroamericano di El Salvador, da famiglia non illustre. A 25 anni Oscar fu ordinato sacerdote e intraprese una serie di viaggi in Europa e in America Latina, per infine tornare nel proprio paese e lì svolgere il proprio ministero. Era un tipico prete del suo paese, di orientamento vagamente conservatore e ben lungi dal lasciarsi influenzare dalle correnti di sinistra della teologia della liberazione.
La sua fama crebbe per via del suo impegno e, col sostegno della Chiesa tradizionalista, divenne prima vescovo (era il 1970) e poi, con grande delusione dei progressisti che supportavano un altro candidato, arcivescovo primate di El Salvador. Era il 23 febbraio del 1977 e il regime autoritario filoamericano, che all'epoca governava il paese col pugno di ferro e mediante il massiccio impiego degli squadroni della morte contro contadini e oppositori, riteneva di aver trovato in lui un valido alleato.
Come nelle più classiche agiografie, quando la vita mondana del protagonista raggiunge il proprio apice, quando sembra che si sia giunta la stabilità e che ogni cosa è al suo posto agli occhi del Secolo, ecco che c'è il punto di svolta, la Conversione. Quella di Oscar Romero avvenne il 12 marzo del 1977.
Il fronte di opposizione al regime comprendeva all'epoca molti sacerdoti, spinti dagli ideali evangelici di povertà e umiltà ad abbracciare la teologia della liberazione, alcuni di loro imbracciando le armi, altri predicando la resistenza e il riscatto sociale. Rutilio Grande, gesuita e amico dell'arcivescovo, faceva parte della schiera di questi predicatori e per questa ragione venne assassinato insieme a due contadini dagli squadroni della morte.
L'omicidio del gesuita ebbe l'effetto di far prendere a Romero una posizione forte contro il governo, che nel frattempo boicottò le indagini e lasciò impuniti gli assassini. Allora cominciò il suo impegno a favore dei poveri del suo paese, dei campesinos (contadini) privi di diritti e vittime delle ingiustizie sociali e delle bande armate dilaganti. Predicava contro gli omicidi politici, contro la pratica dei desaparecidos e le costanti violazioni dei diritti umani da parte dei paramilitari.
Il suo nuovo impegno, però, gli procurò ben presto l'ostilità del potere che immediatamente cominciò a fare di tutto per ottenere la sua destituzione. Dal Vaticano giunsero visite apostoliche per ispezionare ogni dettaglio della sua vita privata, la gerarchia cominciò a isolarlo e gli appelli a Paolo VI non migliorarono di molto la situazione. Alcuni vescovi salvadoregni, inoltre, lo accusarono di essere la causa della violenza per via del suo mancato sostegno al governo autoritario.
Mentre il regime diveniva sempre più violento, Romero resisteva: la pace, diceva, non è equilibrio tra forze contrapposte; la pace è frutto della giustizia. In un'omelia affermò: «È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo!».
L'impegno ostinato e il sempre maggiore isolamento lo esposero personalmente alle ire del Regime che non vedeva l'ora di liberarsi dello scomodo prelato. La parabola agiografica, discendente agli occhi del mondo, ascendente in un'altra prospettiva, si avvicinava così al suo termine, mentre le porte dei potenti si chiudevano davanti all'arcivescovo in cerca di aiuto per la propria gente.
Nell'agosto del 1979 Oscar Romerò si recò a Roma per cercare di portare la propria battaglia a conoscenza di papa Giovanni Paolo II, sperando in un suo aiuto, in un po' di conforto. Il Pontefice, invece, gli concesse udienza solo con mille difficoltà, trattandolo freddamente e dimostrando insensibilità davanti al triste elenco dei sacerdoti e dei contadini massacrati dagli squadroni della morte. Infine, ultima beffa, la persona che doveva essere il massimo pastore della Chiesa universale, colui che - nell'immagine evangelica - darebbe la vita per il proprio gregge, consigliò all'arcivescovo di non esporsi, di tornare nei ranghi e di sostenere e di collaborare col governo delle stragi: era il comunismo il nemico da combattere, non i suoi avversari!
Ancora più solo, Romero tornò in El Salvador e lì subì ancora intimidazioni e attacchi. A metà marzo del 1980 si disse certo del proprio omicidio, ma non per questo allarmato: se anche lo avessero ucciso, diceva, sarebbe sempre sopravvissuta la coscienza del popolo per gli orrori subiti. Un popolo, affermava, non lo si può uccidere.
Nonostante i sabotaggi e le minacce, il prelato continuò a lottare fino alla fine, incitando i poliziotti alla disubbidienza e i soldati all'insubordinazione, pregando per la solidarietà e l'unità della gente davanti alle atrocità subite. Nulla però si fermava e, anzi, la repressione diventava di giorno in giorno più accanita.
La storia, quindi, arrivò al suo epilogo il 24 marzo del 1980, quando durante la messa, nel momento culminante della consacrazione, Oscar Romero fu assassinato da sicari del governo. Al suo funerale, disertato dal Papa, i militari attaccarono la folla uccidendo quaranta persone e ferendone duecento.
Terminò così l'esistenza terrena di Oscar Romero, presto divenuto un'icona del popolo salvadoregno e della lotta contro le oppressioni. Senza alcun riconoscimento ufficiale da parte della Curia romana, la sua gente (Chiesa nel senso più genuino del termine, l'assemblea riunita nel nome di Dio) lo ha riconosciuto come santo e ritenuto degno di venerazione. Santo perché, come avveniva nei primi secoli del cristianesimo, della sua Salvezza non è possibile dubitare; santo perché, finché visse, si ricordò sempre che il suo ruolo era servire il Tempio, non i mercanti. Per questo ora è per molti San Romero d'America.
Romero resisteva: la pace, diceva, non è equilibrio tra forze contrapposte; la pace è frutto della giustizia. In un'omelia affermò: «È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo!».
RispondiEliminaEpure, è così semplice ed evidente, no?
Che bella questa storia, non conoscevo...