mercoledì 29 febbraio 2012

Il tempo delle conclusioni

L'insediamento di Mario Monti ha portato con sè timori e aspettative. Timori perché, dopo anni in cui quelli che c'erano prima hanno fatto spensieratamente le cicale, era naturale aspettarsi una stretta per tornare in riga; aspettative perché, eliminato Napoleone jr, le olgettine, i nani e le ballerine, avremmo visto all'opera un governo reale dopo molto tempo. Era opportuno, nel corso di queste settimane, avere un approccio agnostico davanti al nuovo esecutivo, lasciandogli il tempo di lavorare e di farci capire a quale disegno stava mirando. Adesso, però, è venuto il momento di trarre qualche conclusione.
Non valuteremo la manovra finanziaria: eravamo con l'acqua alla gola e, dispiace dirlo, ma era necessario fare sacrifici. E fin qui non ci piove. Inizieremo invece l'analisi dalla riforma delle pensioni, che ha innalzato notevolmente l'età pensionabile, introdotto massicciamente il metodo contributivo e dunque ha alleggerito gli assegni dei pensionandi.
Dispiace anche qui dirlo, ma non c'è nulla di male. Anzi, era doveroso in questi tempi difficili evitare che le nuove generazioni (quelle più colpite) fossero destinate nei prossimi anni a pagare migliaia e migliaia di pensionati col retributivo (e dunque gran parte del loro stipendio se ne sarebbe volata via in contributi e in tasse per ripianare i bilanci dell'INPS) quando poi, una volta toccato il loro turno, avrebbero avuto qualche spicciolo calcolato col contributivo. Un po' più discutibile la deindicizzazione, che fortunatamente è stata risparmiata alle pensioni più basse: si è fatta cassa sulla pelle degli anziani, per non toccare le tasche di altri.
A chi rispondeva "ma le pensioni sono una forma di welfare, in Italia", il ministro Fornero spiegava che il lavoro non è uno stock fisso per cui se lavora il figlio non lavora il padre e se lavora la moglie non lavora il marito. Frase condivisibile e che dobbiamo tenere a mente, almeno per qualche altro paragrafo.
Sorge a questo punto una riflessione, che in pochi hanno espresso: il lavoratore ha fatto un "patto" con lo Stato, per cui dopo un certo numero di anni ha diritto ad una pensione indicizzata sull'inflazione e calcolata in un determinato modo. Se lo Stato ne ha la necessità, però, può decidere di modificare questo patto per l'interesse generale: è un principio cardine della sovranità. Non si comprende, tuttavia, perché questo valga solo per i lavoratori che aspettano la pensione e non anche per chi si è fatto scudare i propri capitali all'estero, che al contrario ha dovuto subire una "ritrattazione" della parola data dallo Stato solo parziale, molto marginale e da molti commentatori bollata come incostituzionale. Gli unici patti da rispettare sono quelli con i disonesti?
Il governo è quindi andato avanti, questa volta con un pacchetto (non rivoluzionario, ma nemmeno trascurabile) di liberalizzazioni. La proposta ha provocato invece la rivoluzione di taxisti, avvocati, farmacisti e notai, che sono riusciti a unirsi alle proteste (dovute ad altre ragioni e con piattaforme a dir poco fumose) degli autotrasportatori e a quelle, ancora più risalenti nel tempo, dei sardi contro i metodi un po' troppo disinvolti (che ricordo essere stati prescritti dall'ex ministro Tremonti) di Equitalia.
Tutto questo è stato cavalcato dai leghisti e da buona parte del Pdl che, dimenticatisi di essere stati al governo fino a qualche settimana prima, si sono risvegliati Masaniello. E, purtroppo, anche molta gente non certo di destra si è lasciata affascinare da questo coacervo di proteste, forse convinta di vedere una rivolta popolare nella sollevazione di alcune e ben determinate categorie professionali, non certamente di basso ceto. L'esecutivo ha in parte fatto marcia indietro e, dove non è arrivato il ministro Passera, arriva oggi il Parlamento dove le categorie colpite hanno ottime rappresentanze.
E' arrivata dunque la fase tre, la riforma del lavoro, cominciata con la precisazione che non ci sarebbe stata nessuna concertazione, ma solo una consultazione delle parti sociali. Cosa si voglia fare in concreto non è molto chiaro (contratto unico? Semplificazione dei contratti? O cosa?), mentre al contrario è chiarissimo che ad essere preso di mira è (ancora una volta) l'articolo 18, una disposizione marginale (che genera poche centinaia di cause all'anno e riguarda un numero sempre meno consistente di lavoratori - ahimè) che però è un presidio di correttezza, perché è quella norma che permette il reintegro del lavoratore (a tempo indeterminato) licenziato senza giusta causa o senza giustificato motivo.
Qui il governo ha dato il meglio di sè, tra uscite grottesche (dalla monotonia del premier, al lavoro vicino a mamma del ministro dell'interno) e deliranti, come quando il ministro del lavoro ha affermato che si andrà avanti anche senza il consenso dei partiti (come se il Parlamento fosse un optional in una democrazia parlamentare!). Alla fine, quel discorso che non dovevamo dimenticarci, sul lavoro che non è uno stock fisso, è stato dimenticato in favore della formula "maggiore flessibilità in entrate e in uscita", come a lasciare intendere che per far entrare una persona da una parte bisogna farne uscire una dall'altra.
Oggi anche l'ultima maschera di equità (ricordate? Era una parola chiave insieme a rigore e a crescita) viene cestinata e ci promettono un aumento delle imposte indirette (non progressive e quindi pagate in modo uguale dal ricco e dal povero) ed una riduzione di quelle dirette (progressive e quindi miranti alla redistribuzione della ricchezza). Che, se ben ricordo, era il programma di Tremonti nel '94, nonché un'ossessione tatcheriana della migliore destra da macelleria sociale. Alla faccia di Veltroni che vuole Monti di sinistra...
Ancora più inquietante, infine, è il silenzio dell'informazione, che sembra aver conservato l'asservimento al potere del periodo berlusconiano. A reti unificate si tessono le lodi del governo, le interviste ai ministri sono siparietti alla Bruno Vespa e gli esponenti dell'esecutivo disertano l'unico programma (Servizio Pubblico) in cui viene data voce a pensieri alternativi, preferendo rifugiarsi da giornalisti più mansueti.
E il Pd? Tace, naturalmente: sa che se facesse cadere il governo si andrebbe al voto e che se si votasse avrebbe seri rischi di vincere, ritrovandosi così in mano la patata bollente del risanamento. Inoltre Monti è così popolare (per ovvie ragioni: è un premier presentabile e una persona seria, oltre ad avere sette canali televisivi che lo lodano mattina e sera) che farlo cadere potrebbe mettere in crisi l'immagine del partito.
E così l'Italia è passata da un governo di destra populista ad un governo di destra liberista (cambiamento in meglio, ma fino a un certo punto) e da un'opposizione ridicola ad un'opposizione inesistente (cambiamento senza dubbio in peggio). Il tutto col serio pericolo che, nel 2013, si ritorni alla destra populista, magari con Alfano a fare da burattino del nostro piccolo Napoleone, dopo aver perso qualche decennio di conquiste sociali. Malatempora currunt!

venerdì 13 gennaio 2012

A proposito di solidarietà intergenerazionale

Esperimento sociologico. A un operaio viene proposto di spostare il proprio riposo settimanale ad un giorno diverso dalla domenica, quindi percepire qualche euro in più in busta paga senza lavorare quantitativamente di più, in cambio della sicurezza che sessanta giovani colleghi precari avranno un contratto a tempo indeterminato. C'è garanzia di anonimato nella risposta, dunque nessuna costrizione sociale nella scelta. Cosa pensate che sceglierà il nostro lavoratore?
La risposta ce la dà un fatto di cronaca, la storia di una fabbrica con 530 dipendenti in cui è stato proposto di istituire il ciclo produttivo continuo (ovvero la necessità di fare, a rotazione, i turni domenicali) per aumentare la produzione e poter assorbire 60 dei 150 precari attualmente in servizio. Al referendum aziendale la proposta è stata bocciata dai 433 votanti con 264 voti contrari e solo 158 favorevoli.
Presupponendo che tutti i precari abbiano votato per la propria assunzione a tempo indeterminato, risulta che solo 8 dei loro 380 colleghi con il posto fisso (cioè appena il 2%!) hanno fatto la scelta più conveniente ai loro vicini meno fortunati, mentre il restante 98% ha preferito guardare dall'altra parte (i 108 astenuti, pari a poco più del 28%) o garantirsi il riposo settimanale votando contro (il 69%). Roba da consegnare il dilemma del prigioniero all'archeologia della matematica.
Sarà che la crisi rende tutti più egoisti, ma un campione statistico composto al 69% da egoisti, al 28% da indifferenti e solo al 2% da generosi dovrebbe far riflette profondamente su cosa stiamo costruendo e, soprattutto, su quanto possiamo fidarci della nostra politica sempre pronta a chiedere sacrifici (agli altri), ma che sempre più si dimostra essere specchio della società.