mercoledì 29 febbraio 2012

Il tempo delle conclusioni

L'insediamento di Mario Monti ha portato con sè timori e aspettative. Timori perché, dopo anni in cui quelli che c'erano prima hanno fatto spensieratamente le cicale, era naturale aspettarsi una stretta per tornare in riga; aspettative perché, eliminato Napoleone jr, le olgettine, i nani e le ballerine, avremmo visto all'opera un governo reale dopo molto tempo. Era opportuno, nel corso di queste settimane, avere un approccio agnostico davanti al nuovo esecutivo, lasciandogli il tempo di lavorare e di farci capire a quale disegno stava mirando. Adesso, però, è venuto il momento di trarre qualche conclusione.
Non valuteremo la manovra finanziaria: eravamo con l'acqua alla gola e, dispiace dirlo, ma era necessario fare sacrifici. E fin qui non ci piove. Inizieremo invece l'analisi dalla riforma delle pensioni, che ha innalzato notevolmente l'età pensionabile, introdotto massicciamente il metodo contributivo e dunque ha alleggerito gli assegni dei pensionandi.
Dispiace anche qui dirlo, ma non c'è nulla di male. Anzi, era doveroso in questi tempi difficili evitare che le nuove generazioni (quelle più colpite) fossero destinate nei prossimi anni a pagare migliaia e migliaia di pensionati col retributivo (e dunque gran parte del loro stipendio se ne sarebbe volata via in contributi e in tasse per ripianare i bilanci dell'INPS) quando poi, una volta toccato il loro turno, avrebbero avuto qualche spicciolo calcolato col contributivo. Un po' più discutibile la deindicizzazione, che fortunatamente è stata risparmiata alle pensioni più basse: si è fatta cassa sulla pelle degli anziani, per non toccare le tasche di altri.
A chi rispondeva "ma le pensioni sono una forma di welfare, in Italia", il ministro Fornero spiegava che il lavoro non è uno stock fisso per cui se lavora il figlio non lavora il padre e se lavora la moglie non lavora il marito. Frase condivisibile e che dobbiamo tenere a mente, almeno per qualche altro paragrafo.
Sorge a questo punto una riflessione, che in pochi hanno espresso: il lavoratore ha fatto un "patto" con lo Stato, per cui dopo un certo numero di anni ha diritto ad una pensione indicizzata sull'inflazione e calcolata in un determinato modo. Se lo Stato ne ha la necessità, però, può decidere di modificare questo patto per l'interesse generale: è un principio cardine della sovranità. Non si comprende, tuttavia, perché questo valga solo per i lavoratori che aspettano la pensione e non anche per chi si è fatto scudare i propri capitali all'estero, che al contrario ha dovuto subire una "ritrattazione" della parola data dallo Stato solo parziale, molto marginale e da molti commentatori bollata come incostituzionale. Gli unici patti da rispettare sono quelli con i disonesti?
Il governo è quindi andato avanti, questa volta con un pacchetto (non rivoluzionario, ma nemmeno trascurabile) di liberalizzazioni. La proposta ha provocato invece la rivoluzione di taxisti, avvocati, farmacisti e notai, che sono riusciti a unirsi alle proteste (dovute ad altre ragioni e con piattaforme a dir poco fumose) degli autotrasportatori e a quelle, ancora più risalenti nel tempo, dei sardi contro i metodi un po' troppo disinvolti (che ricordo essere stati prescritti dall'ex ministro Tremonti) di Equitalia.
Tutto questo è stato cavalcato dai leghisti e da buona parte del Pdl che, dimenticatisi di essere stati al governo fino a qualche settimana prima, si sono risvegliati Masaniello. E, purtroppo, anche molta gente non certo di destra si è lasciata affascinare da questo coacervo di proteste, forse convinta di vedere una rivolta popolare nella sollevazione di alcune e ben determinate categorie professionali, non certamente di basso ceto. L'esecutivo ha in parte fatto marcia indietro e, dove non è arrivato il ministro Passera, arriva oggi il Parlamento dove le categorie colpite hanno ottime rappresentanze.
E' arrivata dunque la fase tre, la riforma del lavoro, cominciata con la precisazione che non ci sarebbe stata nessuna concertazione, ma solo una consultazione delle parti sociali. Cosa si voglia fare in concreto non è molto chiaro (contratto unico? Semplificazione dei contratti? O cosa?), mentre al contrario è chiarissimo che ad essere preso di mira è (ancora una volta) l'articolo 18, una disposizione marginale (che genera poche centinaia di cause all'anno e riguarda un numero sempre meno consistente di lavoratori - ahimè) che però è un presidio di correttezza, perché è quella norma che permette il reintegro del lavoratore (a tempo indeterminato) licenziato senza giusta causa o senza giustificato motivo.
Qui il governo ha dato il meglio di sè, tra uscite grottesche (dalla monotonia del premier, al lavoro vicino a mamma del ministro dell'interno) e deliranti, come quando il ministro del lavoro ha affermato che si andrà avanti anche senza il consenso dei partiti (come se il Parlamento fosse un optional in una democrazia parlamentare!). Alla fine, quel discorso che non dovevamo dimenticarci, sul lavoro che non è uno stock fisso, è stato dimenticato in favore della formula "maggiore flessibilità in entrate e in uscita", come a lasciare intendere che per far entrare una persona da una parte bisogna farne uscire una dall'altra.
Oggi anche l'ultima maschera di equità (ricordate? Era una parola chiave insieme a rigore e a crescita) viene cestinata e ci promettono un aumento delle imposte indirette (non progressive e quindi pagate in modo uguale dal ricco e dal povero) ed una riduzione di quelle dirette (progressive e quindi miranti alla redistribuzione della ricchezza). Che, se ben ricordo, era il programma di Tremonti nel '94, nonché un'ossessione tatcheriana della migliore destra da macelleria sociale. Alla faccia di Veltroni che vuole Monti di sinistra...
Ancora più inquietante, infine, è il silenzio dell'informazione, che sembra aver conservato l'asservimento al potere del periodo berlusconiano. A reti unificate si tessono le lodi del governo, le interviste ai ministri sono siparietti alla Bruno Vespa e gli esponenti dell'esecutivo disertano l'unico programma (Servizio Pubblico) in cui viene data voce a pensieri alternativi, preferendo rifugiarsi da giornalisti più mansueti.
E il Pd? Tace, naturalmente: sa che se facesse cadere il governo si andrebbe al voto e che se si votasse avrebbe seri rischi di vincere, ritrovandosi così in mano la patata bollente del risanamento. Inoltre Monti è così popolare (per ovvie ragioni: è un premier presentabile e una persona seria, oltre ad avere sette canali televisivi che lo lodano mattina e sera) che farlo cadere potrebbe mettere in crisi l'immagine del partito.
E così l'Italia è passata da un governo di destra populista ad un governo di destra liberista (cambiamento in meglio, ma fino a un certo punto) e da un'opposizione ridicola ad un'opposizione inesistente (cambiamento senza dubbio in peggio). Il tutto col serio pericolo che, nel 2013, si ritorni alla destra populista, magari con Alfano a fare da burattino del nostro piccolo Napoleone, dopo aver perso qualche decennio di conquiste sociali. Malatempora currunt!

venerdì 13 gennaio 2012

A proposito di solidarietà intergenerazionale

Esperimento sociologico. A un operaio viene proposto di spostare il proprio riposo settimanale ad un giorno diverso dalla domenica, quindi percepire qualche euro in più in busta paga senza lavorare quantitativamente di più, in cambio della sicurezza che sessanta giovani colleghi precari avranno un contratto a tempo indeterminato. C'è garanzia di anonimato nella risposta, dunque nessuna costrizione sociale nella scelta. Cosa pensate che sceglierà il nostro lavoratore?
La risposta ce la dà un fatto di cronaca, la storia di una fabbrica con 530 dipendenti in cui è stato proposto di istituire il ciclo produttivo continuo (ovvero la necessità di fare, a rotazione, i turni domenicali) per aumentare la produzione e poter assorbire 60 dei 150 precari attualmente in servizio. Al referendum aziendale la proposta è stata bocciata dai 433 votanti con 264 voti contrari e solo 158 favorevoli.
Presupponendo che tutti i precari abbiano votato per la propria assunzione a tempo indeterminato, risulta che solo 8 dei loro 380 colleghi con il posto fisso (cioè appena il 2%!) hanno fatto la scelta più conveniente ai loro vicini meno fortunati, mentre il restante 98% ha preferito guardare dall'altra parte (i 108 astenuti, pari a poco più del 28%) o garantirsi il riposo settimanale votando contro (il 69%). Roba da consegnare il dilemma del prigioniero all'archeologia della matematica.
Sarà che la crisi rende tutti più egoisti, ma un campione statistico composto al 69% da egoisti, al 28% da indifferenti e solo al 2% da generosi dovrebbe far riflette profondamente su cosa stiamo costruendo e, soprattutto, su quanto possiamo fidarci della nostra politica sempre pronta a chiedere sacrifici (agli altri), ma che sempre più si dimostra essere specchio della società.

mercoledì 21 dicembre 2011

A volte ritornano: l'articolo 18 e il desiderio di abrogarlo

Art. 18 - Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. [omissis]
Periodicamente questo lungo periodo della legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, viene messo in discussione e accusato di essere una delle principali cause della crisi italiana. Si dice che siamo gli unici in Europa ad avere una disposizione simile (probabilmente la Francia si è spostata in Asia, allora!) e che eliminare la tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati avrebbe come effetto l'aumento dell'occupazione e la riduzione della precarietà.
Visto che in Francia e in Spagna (anche se in misura minore) è prevista la reintegrazione del lavoratore, possiamo escludere che la riforma dell'articolo 18 ci avvicinerà a un qualche fantomatico modello europeo. Più degne di analisi, invece, sono le altre due motivazioni portate, che promettono straordinari benefici in cambio dell'eliminazione di questa importante tutela.
Va detto per prima cosa che l'articolo 18 non vieta di licenziare in assoluto: se un'impresa è in crisi ha il diritto di licenziare, così come si può licenziare il dipendente diventato inutile e il dipendente sistematicamente inadempiente. E' vietato, invece, licenziare tanto per, licenziare per sadismo, licenziare per antipatia (in tal caso tanto vale non assumere una persona antipatica a pelle, no?) e, in generale, cacciare un lavoratore senza giusta causa o giustificato motivo.
Perché un'impresa dovrebbe essere messa in difficoltà dal divieto per il suo proprietario di cacciare su due piedi un lavoratore che fa il proprio dovere? Piuttosto un licenziamento irragionevole non rischia di fare del male all'impresa stessa in quanto la priva di un collaboratore esperto, formato e integrato? Quello che fa prevalere i gusti personali all'interesse della propria attività è niente altro che un pessimo imprenditore: se segue i propri capricci nell'organizzazione del lavoro, perché non dovrebbe seguirli anche nella gestione delle risorse economiche?
La riforma dell'art. 18 favorirebbe gli imprenditori peggiori, delegando a loro il compito di promuovere la crescita e di aumentare l'occupazione, alla faccia di tutti i bei discorsi sul merito e sull'oculatezza. Verrebbe dato l'incentivo ad assumere a chi non sarà in grado di dirigere correttamente la propria attività e che quindi sarà più portato a farla fallire, con le logiche conseguenze sul piano dell'occupazione.
Si dice poi che l'abrogazione dell'art. 18 porterebbe ad una riduzione della precarietà: si assume a tempo indeterminato se si sa che poi il dipendente sarà licenziabile a piacimento. Resta solo da capire quanto fisso sia il posto di lavoro da cui si può essere cacciati semplicemente per essersi presentati a lavoro con la cravatta annodata male. Semplicemente, privando i lavoratori di questa tutela, li si precarizza in massa.
Gli argomenti teorici esposti non sono altro che una risposta ai discorsi altrettanto teorici dei promotori della riforma. C'è chi, invece, ha provato a cimentarsi in qualche statistica, con risultati sorprendenti. Se ci sono dati contrari che potrebbero far pensare ad un'utilità dell'abrogazione, sono i benvenuti: fino ad ora gli abolizionisti si sono limitati a promettere gli indimostrati effetti taumaturgici che deriverebbero dall'eliminazione della norma.

sabato 10 dicembre 2011

Io sono mia. Anzi, io sono loro...

La cultura cambia e in Trentino sembra che cambi più velocemente che altrove. Non è passato molto tempo, infatti, da quando un giudice decise di togliere un bambino ad una madre troppo povera per poterlo mantenere adeguatamente: allora, ribaltando la concezione comune, si stabilì che il benessere materiale (non psico-fisico: non c'era timore di maltrattamenti) del figlio supera l'interesse all'unità della famiglia (che, ricordiamolo, è costituzionalmente garantito). Ora, invece, sempre a Trento, è avvenuta la trasformazione concettuale dell'aborto.
Solitamente l'aborto è presentato come una extrema ratio ed è in questo senso che personalmente lo accetto nell'ordinamento: in certe situazioni, dopo una molto attenta riflessione, si sacrifica totalmente un bene futuro (la vita del nascituro) per salvaguardare un bene presente di un altro soggetto (la madre).
Emma Bonino aveva affermato a Vieni Via con Me che l'aborto non sarebbe un diritto, ma niente altro che il rovescio della medaglia del diritto alla maternità consapevole. Cioè, in soldoni, la realizzazione di quel sacrosanto io sono mia gridato in altri tempi: se una donna è padrona di se stessa, allora deve poter decidere anche quando mettere al mondo un figlio e quando no.
Adesso si fa il salto di qualità e si nega alla madre l'essere propria, adducendo la ragione dell'età: sono i genitori a dover decidere per lei, a poter disporre del suo corpo per il suo bene. Il principio della libertà di scelta individuale, la bandiera della legalizzazione dell'aborto, viene negato disinvoltamente. La logica conclusione è che l'aborto smette di essere extrema ratio o anche solo eccezione e diviene una possibilità come un'altra in caso di gravidanza, attivabile (in alcuni casi particolari, come questo) anche da terzi.
Oggi si è chiesto alla madre, in modo martellante, invadente e agitando anche la minaccia legale, semplicemente di eliminare il proprio figlio non ancora nato con la motivazione del bene personale. Però, mutatis mutandis, cosa potrebbe accadere se in caso di legalizzazione dell'eutanasia passasse l'idea che i genitori possano chiedere insistentemente e in modo martellante al figlio di farsi uccidere per il proprio bene?
Sarebbe stato interessante sapere cosa avrebbe deciso il giudice se effettivamente la madre trentina fosse riuscita a resistere alle fortissime pressioni psicologiche esercitate dalla famiglia, ma purtroppo (o per fortuna) non si è giunti al giudizio.
Ma se il tribunale avesse dato ragione ai genitori, accogliendo la loro linea, che garanzie avremmo avuto in caso di futura introduzione di leggi sull'eutanasia? Applicando logiche simili si darebbe di fatto la licenza di uccidere agli esercenti patria potestà?

martedì 6 dicembre 2011

L'eterno ritorno dell'eterno ritornello

Guardare a Ballarò gli interventi della Gelmini e di Maroni, intrisi di populismo facile e ottuso e privi di qualsiasi utilità concreta, non può non ricordare queste pagine di un romanzo non certo scritto da un autore al soldo di Monti o di un reazionario affamatore della BCE.


Era quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino). [...] E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l'esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutt'a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl'incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S'imploravan da' magistrati que' provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l'abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d'attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de' rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de' più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l'uomo secondo il suo cuore.
I Promessi Sposi, cap. XII

Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che l'abbondanza fosse tornata in Milano, come per miracolo. Pane in quantità da tutti i fornai; il prezzo, come nell'annate migliori; le farine a proporzione. [...] Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan fatto in quell'altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa d'Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche quattrino da parte, l'investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie. Così, facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sé, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea.
[...]
La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda. I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti.
[...]
Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de' conti, i frutti principali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta.
I Promessi Sposi, cap. XXVIII 
E ancora una volta il popolo correrà dietro ai Ferrer di turno, dimenticandosi, magari, che è stato Berlusconi a pretendere la fiducia sulla manovra in modo da evitare modifiche.

sabato 3 dicembre 2011

Dibattito sul suicidio assistito

Sul Fatto Quotidiano è apparso questo scambio di opinioni tra Marco Travaglio e Paolo Flores D'Arcais in materia di suicidio assistito/omicidio del consenziente. Un confronto che credo sia migliore di molti altri perché ripulito del sottobosco di guerra per bande politica e privo, nella voce "contro", della solita retorica a cui gli autori clericali (il peggio del giornalismo italiano: Socci, Ferrara e compagnia) ci hanno abituato. Niente spaccatura destra-sinistra, laicisti-clericali e via dicendo, ma pura e semplice ontrapposizione di punti di vista.
Non è un dibattito che ha la pretesa di essere universale e capace di dare una risposta a tutti i singoli casi (sebbene spesso D'Arcais la butti in questo senso), ma si incentra su un caso specifico, ovvero quello di chi è spinto a farla finita non da una malattia allo stadio terminale, ma dalla propria condizione psicologica.

Aggiungo in appendice una riflessione in più, squisitamente giuridica.  Lo stato di incapacità naturale (cioè non ufficialmente riconosciuta) può anche essere dovuto a situazioni depressive acute e in questa condizione la legge stabilisce che, se una persona stipula un contratto, poi, riacquistata la normale lucidità, ha il diritto di farlo dichiarare nullo. Come si può riconoscere ad un soggetto il diritto di disporre in modo irreversibile della propria vita se non può nemmeno farlo dei propri beni?

martedì 29 novembre 2011

Che sia detto pazzo, per salvare la pazzia di tutti gli altri

Alla fine, per il principio del terzo escluso, sta succedendo quello che era prevedibile. Breivik o sarebbe stato condannato per i suoi crimini, oppure sarebbe stato dichiarato pazzo (cioè incapace), o l'una o l'altra cosa, e dopo le perizie psichiatriche tutto fa pensare che si sceglierà la seconda opzione.
E' più semplice, perché lava la coscienza collettiva dell'Occidente, perché separa la figura del mostro da noi (anche Hitler lo vorremmo pazzo) ripristinando quella linea invisibile che separa il noi dall'altro, includendo nella prima categoria ciò che accettiamo e relegando nella seconda i nostri fantasmi più oscuri, ciò che è inaccettabile. Il pazzo è l'altro per eccellenza, colui che non è inquadrabile nelle categorie logiche perché rifiuta le nostre regole razionali, perché il suo modo di combinare le premesse o perfino le sue stesse premesse del suo pensiero ci sono estranei.
Ma con Breivik siamo davvero davanti all'altro, cioè al pazzo? In cosa divergevano i suoi sproloqui islamofobi dalle tiratissime ed osannatissime opere di Oriana Fallaci ultimo stile, che denunciava l'invasione musulmana e la complicità della sinistra multiculturalista e che ad un certo punto si vantava perfino di essere venuta alle mani con un immigrato a Firenze? In cosa si differenzia Breivik da chi bombarda dall'alto dei cieli un ignaro quartiere residenziale mediorientale i cui abitanti hanno la colpa di essere concittadini dei nemici dell'Occidente?
Quindi di Breivik non percepiamo estranee le premesse (cioè l'islamofobia, l'antimulticulturalismo, il pensiero che a volte sia necessaria la violenza più cieca per eliminare i nostri nemici), ma le logiche conclusioni a cui il terrorista è arrivato a partire da quelle premesse: si può magnificare chi inneggia all'eccidio dei nemici dell'Occidente, ma se all'improvviso qualcuno agisce di conseguenza, facendo ciò che era stato invocato da chi poco prima era stato applaudito da folle esaltate, allora diventa pazzo.
Pazzo perché così non ci tocca il fastidioso sforzo di ripensare le nostre premesse concettuali, pazzo perché non può che essere diverso da noi chi la pensa come noi, eppure agisce in un modo che istintivamente ci ripugna. Può essere come noi chi condivide le nostre idee, cioè che l'Islam è un nemico che ci ha dichiarato guerra e che le sinistre gli stanno aprendo le porte, ma arriva a comportarsi di conseguenza, cioè a prendere le armi e combattere? Occorre che un singolo espii le colpe della collettività da assolvere e il terrorista norvegese può esserlo.
Ma è pazzo Breivik, che si sente in guerra e prende le armi, o Borghezio, che (a quanto dice) si sente come il primo in guerra, ma poi sostiene di non condividere il metodo militare del terrorista? Chi è che non pensa in modo conforme alle premesse dei propri ragionamenti?
Meglio dichiarare pazzo quello che pensa e agisce in modo razionalmente coerente, altrimenti ci toccherà ripensare molte, troppe cose.