martedì 24 maggio 2011

Milano diventa la vetrina della peggiore politica italiana

Su Milano Berlusconi si sta giocando tutto: perdere la principale città del Nord, la sua roccaforte, quella che lui chiama la capitale morale d'Italia, apparirebbe a lui e a molti pidiellini come l'inizio della fine. Anche se c'è già stato l'esempio di Filippo Penati che vinse la provincia al ballottaggio (per non essere poi riconfermato cinque anni dopo) contro uno solo dei due tronconi in cui si era spaccato il centrodestra, un trionfo di Pisapia contro la Moratti con dietro Berlusconi e tutta la coalizione di governo unita sarebbe un dato decisamente più preoccupante.
La campagna elettorale di Pdl e Lega è stata magniloquente, con milioni di euro investiti e la mobilitazione di tutti i leader nazionali, Silvio "Cesare" Berlusconi in persona. Non bastando i mezzi ordinari, si è anche fatto ricorso alla calunnia contro il candidato rivale, accusato di essere un fiancheggiatore dei terroristi e un pregiudicato: prima la Moratti lo ha diffamato a fine faccia-a-faccia su Sky, quando ormai lui non si sarebbe potuto difendere replicando, poi Daniela Santanché ha sventolato ad Annozero una fotografia ritagliata da un giornale, delirando su una improbabile bandiera di Hamas sventolata durante un comizio di Pisapia. Occorreva, del resto, far dimenticare all'opinione pubblica la storia della casa del figlio della Moratti (anche detta Batcaverna) e distogliere l'attenzione da altri e più attuali scoop riguardanti la casa di famiglia.
Dopo il primo turno terminato con sette punti di svantaggio, è scattato l'allarme rosso e l'Italia ha dovuto volgere la propria attenzione su una consultazione amministrativa locale. Gli house organ si sono mobilitati (ieri Il Giornale di Sallusti titolava brigate Pisapia), Minzolini ha concesso a Berlusconi un lungo monologo per il quale (miracolo!) è stato perfino richiamato dai vertici Rai, sono state fatte promesse folli e irrealizzabili, come inattuabili tagli di tasse e sanatorie generali per le multe (alla faccia di chi dice che destra significherebbe ordine pubblico e fermezza), e la stessa politica nazionale si è aggrovigliata nel dibattito sull'opportunità o meno di spostare un paio di ministeri da Roma a Milano, scatenando l'ira di Alemanno.
Parallelamente, si è cercato di seminare il panico tra gli elettori, fomentando la paura per gli zingari, i musulmani e i gay (mancano solo gli ebrei e sembrerebbe propaganda nazista...), proponendo la Moratti come l'ultimo baluardo della gloriosa civiltà italico-padana, del benessere lombardo e del grande affare (per le cosche?) l'Expo.
Si è mobilitato anche un certo mondo (a)cattolico, soprattutto quello legato a CL. Pisapia è definito, metaforicamente parlando, un Anticristo, Sallusti se la prende con il cardinale Tettamanzi che non avrebbe fatto abbastanza in difesa della famiglia, della vita e contro i gay e l'ateismo, insomma, che non si sarebbe trasformato nel promotore dell'elezione di Letizia Moratti. Insomma, Cristo e il dio Po devono poter sfilare insieme tra la Madonnina e il matriomonio di Calderoli con druidi, Odino e altre bambinate.
Tra due settimane vedremo se questo coacervo di frottole e colpi bassi darà i risultati sperati, salvando il sidnaco uscente di Milano, l'asse Pdl-Lega e il governo nazionale.

martedì 17 maggio 2011

Di Strauss-Khan e della svolta a destra della sinistra

Le cronache di questi giorni hanno portato alla ribalta Dominique Strauss-Khan, il direttore del Fondo Monetario Internazionale, per una faccenda giudiziaria penosa che gli è costata la corsa alle presidenziali francesi. Colpevole o innocente che sia l'uomo, non sono i reati ciò che deve interessare del personaggio, ma il suo ruolo nella politica della democrazia transalpina.
Se non fosse successo nulla, se non fosse scoppiato lo scandalo e la sua corsa all'Eliseo fosse andata avanti, probabilmente nessuno avrebbe avuto nulla da ridire sulla scelta di una candidatura come quella. L'attenzione mediatica, però, ci offre lo spunto per porre una questione che non riguarda solo la Francia, ma tutta l'Europa, in special modo quella che si definisce di sinistra: che c'entra il capo dell'organizzazione che più di tutte, nel bene e nel male, rappresenta l'egemonia economico-culturale del capitalismo americano con la tradizione socialista e socialdemocratica?
L'Europa, si dice spesso, sta svoltando a destra: immigrazione, crisi economica e incertezze per il futuro stanno un po' ovunque provocando la chiusura delle varie società nazionali. Nella maggior parte dei casi questo si traduce nella vittoria delle destre nelle tornate elettorali e a volte perfino in modifiche ultanazionaliste delle costituzioni (come nel caso ungherese). Davanti a tutto ciò, la sinistra è in piena crisi di identità, dove per sclerotizzazione su vecchi improponibili modelli, dove per autoimmolazione a vantaggio di valori che una volta si dicevano di destra, ma che oggi la destra stessa sembra aver abbandonato nella sua svolta nazional-identitaria.
Dunque, mentre la destra liberale diventa destra identitaria, la sinistra riformista muta prendendone il posto. Esempi nostrani potrebbero essere la scelta dell'imprenditore Calearo come capolista nel Nordest alle ultime politiche e le voci a sostegno della scelta dell'ex amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, come nuovo leader del Pd; con tutto questo, mentre la Lega diventa il partito degli operai, il centrosinistra tende a trasformarsi nel referente naturale dei manager, con un distaccamento ancora maggiore dalla sua base elettorale naturale.
Le nuove destre stanno esercitando una manovra a tenaglia perfetta, accaparrandosi il voto popolare grazie alla demagogia spicciola della xenofobia e dei valori tradizionali e mantenendo intatta la propria riserva elettorale naturale (la parte più gretta dei ceti abbienti) con la garanzia del mantenimento dello status quo sociale. Le sinistre, dunque, o perseguono sulla linea tradizionale, perdendo sostegno a causa dell'impossibilità di seguire le destre sulla strada del populismo, oppure, come nel caso francese, cercano di spostare il proprio baricentro a destra per catturare il cosiddetto voto moderato, cioè quella parte dell'elettorato già avverso che è messo sempre più a disagio dalla deriva dei propri partiti di riferimento. Il risultato del processo potrebbe essere la nascita di un bipolarismo di tipo americano, con due partiti quasi equivalenti per ideologia (salvo per la presenza, in quello più a destra, di un'ala estremamente demagogica e intollerante) e un sistema di alternanza dovuto non al mutare dei pareri degli elettori, ma alla delusione o al trascinamento di un leader carismatico.
Ora, all'atto pratico, non resta che capire se i socialisti francesi sostituiranno il loro ormai improponibile candidato di destra con uno della stessa linea o se, perso il papa straniero e date per perse le elezioni, decideranno di risparmiare a tutta l'opinione pubblica di sinistra un altro strazio simile.

lunedì 16 maggio 2011

Delle inutili sanzioni: l'Agcom punisce Rai, Mediaset e Sky

Il Tg1, il Tg4 e il Tg di Sky sono stati sanzionati dall'Agcom, l'autorità indipendente per le comunicazioni, per violazione delle norme sulla par condicio in periodo elettorale. L'ammontare complessivo è di € 300.000, divisi equamente tra le tre reti, che però sappiamo già non avere nessuna capacità dissuasiva per il futuro: cos'è una somma simile per colossi come Rai, Mediaset e Sky? Se è ritenuta parte della politica aziendale la copertura sbilanciata del periodo preelettorale, i colpevoli non avranno già messo da parte in anticipo le risorse (per altro irrisorie) per affrontare evenienze di questo tipo?
Tg1 e Tg4 sono stati puniti per aver dedicato uno spazio abnorme alle forze di maggioranza e ridicolo a quelle di opposizione (centrosinistra e terzo polo), Sky per averne garantito troppo poco all'UdC. Le sanzioni sono arrivate molto tardi, però, e la notizia non ha avuto alcuna risonanza mediatica. Come sempre succede in questi casi.
Le sanzioni contro Mediaset, ormai, sono una tradizione dei periodi elettorali (che si susseguono ogni primavera, visto che in Italia si vota con cadenza annuale), mentre il Tg1 di Minzolini, tra un servizio sul divieto di calpestare le formiche e uno sulla cottura delle patate in lavastoviglie, si occupa di politica in modo ormai incredibilmente fazioso, così che ad ottobre ricevette una diffida e a fine marzo un altro monito sempre da parte dell'autorità, mentre l'anno scorso ha collezionato la prima sanzione.
Sta di fatto che la legge sulla par condicio è di efficacia sempre più teorica: il suo rispetto è divenuto opzionale e le sanzioni non sono tali da spaventare una grossa rete televisiva che vuole farsi house organ, tantomento la Rai partitocratica (di maggioranza) delle cui perdite patrimoniali non risponde chi la dirige. La prova la costituisce la recidiva costante di coloro che infrangono le regole professionalmente.
Compreso ciò, occorre forse rivedere il sistema delle sanzioni, perché una normativa da sola non ha alcuna efficacia reale se la sua violazione non provoca immediatamente una possibile reazione efficace. Uno strumento potrebbe essere colpire non più le reti, ma i direttori di testata, in modo che persone come Minzolini, rischiando del proprio, ci pensino due volte prima di dimostrare la consueta strafottenza nei confronti dei richiami dell'autorità. In casi di reiterata e grave infrazione, si potrebbe anche pensare di colpire pesantemente la rete chiudendo la finestra informativa colpevole o, in casi gravissimi, anche di riassegnare la frequenza occupata: l'etere è pubblico e non lo si può concedere a chi permane abitualmente nell'illegalità.
Se invece non ci si vuole spingere così avanti e si vuole rimanere fermi al sistema attuale di sanzioni contro le reti, allora occorre aumentarne l'ammontare, possibilmente rendendolo proporzionale alle dimensioni del soggetto colpito, pena lo schiacciare i piccoli e non fare che il solletico ai grandi.
Ma se si vuole lasciare tutto come è ora, allora tanto vale avere la franchezza e l'onestà intellettuale di eliminare questa inutile legge sulla par condicio: che i direttori operino dichiaratamente secondo coscienza, visto che in realtà lo fanno già.

domenica 15 maggio 2011

Avvenire non chiede di boicottare Moretti: ancora disinformazione italiana

Cannes ha accolto con molto favore il film Habemus Papam di Nanni Moretti, un'opera che personalmente ho trovato ironica e perlopiù priva degli elementi più cervellotici del cinema del regista romano. Commenti non negativi sono giunti anche dalle due principali testate cattoliche, Famiglia Cristiana e Avvenire, che riconoscono la qualità artistica della pellicola, ma che (Avvenire più che altro) osservano come sia una ricostruzione comunque atea, sebbene benevola, della realtà vaticana.
Una parte del mondo cattolico, invece, ha espresso posizioni molto più radicali, denunciando un attacco diretto alla Chiesa e al Pontefice e chiedendo a gran voce il boicottaggio del film da parte dei fedeli. Il resto della stampa ha preso queste ultime dichiarazioni come la posizione cattolica ufficiale e, giocando sul fatto che la prosposta di disertare le sale sia stata lanciata dal vaticanista Salvatore Izzo con una lettera ad Avvenire, ha avuto gioco facile a sostenere che fosse questa la linea del giornale della CEI, ignorando l'intenso dibattito che si è svolto su quelle stesse colonne a proposito del film. Lo stesso direttore ha affermato che quella di Izzo non è l'opinione della redazione.
Pare che sia stato Fabio Fazio, travisando un'agenzia, a commettere il qui pro quo, scambiando la lettera per un editoriale. Poi, dato che l'errore faceva comodo, è stato ripreso in rete nonostante le smentite, così che è passata l'idea che Avvenire abbia chiesto ai cattolici di non assistere alle proiezioni di Habemus Papam.
Izzo fa parte di quella frangia di cattolici che crede che la risposta ad ogni posizione divergente debba essere la censura o, quantomeno, la non esposizione ad essa. Un atteggiamento certamente suicida, che alla lunga finirebbe per ghettizzare i cattolici italiani, la minoranza (i praticanti sono solo una minoranza, oggi) nazionale più consistente, causando la loro asfissia culturale. Linea ripudiata anche da Messori, ma che continua ad essere ben radicata tra i credenti più oltranzisti fautori della dicotomia Chiesa-mondo, salvo, magari, poi tacere quando la gerarchia ecclesiastica si compromette con la politica più corrotta, vista come male necessario per un'improbabile attività pastorale.
Parallelamente, gli anticattolici non vedono l'ora di approfittare di queste boutade che sono sempre occasioni d'oro per esprimere un giudizio totalizzante su tutti i fedeli, dipinti come chiusi e ostinati, affermando una fantomatica maggiore tolleranza dei non credenti o degli appartenenti ad altre religioni. Sparate come quelle di Izzo, quindi, si rivelano comunque dei boomerang formidabili per la Chiesa.
La stampa che cade in questi errori è la stessa la cui superficialità è irrisa dal film di Moretti. Il giornalista che, invece di informare, disinforma è come una guida cieca che trascina l'intera opinione pubblica nel proprio errore. E guai alle guide cieche!

domenica 8 maggio 2011

Un senatore dell'IdV chiede di far tacere chi critica Striscia la Notizia

Apprendo dal blog di Gad Lerner che un senatore dell'Italia dei Valori, Elio Lannutti, ha presentato un'interrogazione parlamentare ai ministri dello sviluppo economico e degli affari esteri per difendere la trasmissione televisiva Striscia La Notizia dalle accuse, risalenti all'ottobre scorso, del settimanale americano Newsweek.
Ma che ci fa un parlamentare della Repubblica, non del Pdl, a difendere una trasmissione del Biscione? E quali inauditi attacchi avrebbe subito la striscia serale di Canale 5 perché un senatore invochi l'attivazione della Farnesina contro un settimanale statunitense?
Il sen. Lannutti, nel testo a cui ho fatto rinvio, si prodiga in un interminabile panegirico dell'operato del programma TV, tre lunghi paragrafi in cui tesse le lodi di Antonio Ricci e dei suoi inviati per i loro oltre vent'anni di inchieste, affermazioni sulle quali non ci interessa entrare nel merito. Solo dopo viene presentato il caso, la cui descrizione è demandata ad un articolo di Libero (sì, quel Libero, il giornale di Feltri e Belpietro!) che dipinge le critiche della giornalista americana Barbie Nadau come un assalto coordinato (tra chi?) a Striscia.
Il senatore sposa la linea del quotidiano: una trasmissione scomoda sta venendo ingiustamente diffamata e trasformata in un capro espiatorio di tutti i mali italiani. Inoltre, ulteriore prova della malafede della giornalista, è la sua reazione apparentemente esagerata dopo la denuncia che ha subito per diffamazione: ha dichiarato di aver provato timore e di considerare la querela come una forma di intimidazione.
Ciò che è successo, in realtà, è molto più semplice ed è comprensibile leggendo la stessa interrogazione: un'americana, non abituata alla licenza della TV italiana, ha guardato un programma ritenuto per famiglie ed ha assistito ad un balletto sexy (inutile che ci giriamo intorno: le veline sono lì proprio per essere belle da guardare) impensabile nel suo paese, così che ha pensato di scriverci un articolo. Essendo straniera, poi, non sapeva che da noi la denuncia per diffamazione contro i giornalisti è una prassi ormai universale ed ha creduto (avendo in mente la realtà degli USA) che fosse una cosa seria, spaventandosi senza motivo.
Sconcertante, invece, è ciò che l'esponente dell'Italia dei Valori (ripeto, non del Pdl) domanda ai ministri: «quali misure urgenti il Governo intenda attivare per ripristinare la verità dei fatti ed impedire l'attacco concentrico ad una trasmissione libera come "Striscia la Notizia"».
Dunque, per un esponente dell'attuale opposizione, il governo presieduto dal padrone della rete che trasmette Striscia La Notizia dovrebbe intervenire ufficialmente per neutralizzare un articolo su Striscia La Notizia ed attivarsi per evitare che in futuro vengano pubblicati ulteriori articoli critici sulla stessa trasmissione. Poi, magari, il senatore scenderà in piazza alla prossima manifestazione in difesa della Costituzione, della quale dimentica certamente l'articolo 21, di cui è bene sempre riportare il testo per intero.

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'Autorità giudiziaria.
Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.
Il secondo comma, la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure, dovrebbe farci ricordare che non è il governo ad essere tenuto a fare in modo che i giornalisti dicano quella che è ritenuta essere la verità (da chi, poi, dal sen. Lannutti?). Se la libertà di stampa diventa diffamazione ed offesa ai diritti di altri cittadini, la Costituzione specifica chiaramente che deve essere l'autorità giudiziaria ad occuparsene, non il governo, nè il potere politico nel suo complesso. E' la discriminante fondamentale tra la democrazia liberale e lo Stato autoritario.

domenica 1 maggio 2011

Il confine labile tra la democrazia dal basso e il populismo

Il Movimento 5 Stelle di Bologna ha inaugurato un nuovo sistema di controllo dei proprio eletti che, sulla carta, vorrebbe garantire che il rappresentante sia costantemente in linea con i propri rappresentati in modo efffettivo. In parole povere, i consiglieri comunali grillini dovranno fare rendiconto semestrale all'assemblea dei tesserati del Movimento, dopodiché un voto deciderà se potranno andare avanti o dovranno dimettersi dall'incarico istituzionale.
Se per i grillini questa pratica è un esempio da imitare in quanto modello di democrazia dal basso, ci è imposto di osservare che non è tutto oro quel che luccica.
La prima lampante anomalia è che, se il consigliere è eletto da migliaia di cittadini alle urne, sembra molto strano che alcune decine (o massimo centinaia) di militanti possano decidere di dimissionarlo. Potrebbe apparire come una riproposizione velata del vecchio potere assoluto delle segreterie di partito.
In secondo luogo, nel corso della propria attività istituzionale l'eletto non dovrebbe essere sottoposto a vincolo di mandato. E' stata questa una delle maggiori conquiste del costituzionalismo moderno, che appunto differenzia i nostri organi rappresentativi dagli antichi parlamenti medievali in cui il rappresentante altro non era che una sorta di ambasciatore della comunità d'appartenenza. La ragione è facile da comprendere: è impossibile che il candidato conosca a priori tutti i possibili scenari a cui andrà incontro (la realtà supera la fantasia) e la sua libertà garantisce una maggiore flessibilità nell'andare incontro alle esigenze impreviste.
Esiste poi già un meccanismo di controllo degli eletti da parte degli elettori, ovvero le elezioni. Le scadenze elettorale, poste a distanza di qualche anno l'una dall'altra, permettono al rappresentante di godere dell'autonomia necessaria per promuovere politiche di lungo respiro, magari impopolari nel breve termine, ma ricche di buoni frutti nel medio-lungo. Sei mesi, al contrario, non corrispondono nemmeno alla durata di un esercizio: il politico sarà più propenso a votare un taglio indispensabile o a dilapidare le risorse pubbliche per ottenere la riconferma?
In un paese ammalato di berlusconismo dove alla politica della responsabilità si preferisce il tutto e subito, questo modo di fare rischia di trasformarsi nel trionfo del populismo se gestito dalle persone sbagliate. Siamo sicuri che la base grillina sia sufficientemente preparata e responsabile per saper distinguere una politica inetta da una semplicemente "ipermetrope"?
Resta poi da comprendere a che titolo i primi dei non eletti potranno rimpiazzare i rappresentanti dimissionati dalla base del movimento: perché favorire una persona che ha preso meno voti, ma che è più popolare tra i tesserati? Avranno così gioco facile i grillini a sovvertire il voto a pochi mesi dalle consultazioni, cacciando un consigliere molto votato, ma a loro sgradito. E' questo il modello di democrazia dal basso proposto dalle 5 Stelle?