sabato 31 luglio 2010

Arendt, Liebrecht, Nirenstein e la banalità dell'inquadrare

Su La Repubblica di oggi, nella sezione delle novità librarie, si trova un articolo-intervista di Susanna Nierenstein (sorella di Fiamma, vice-presidente pidiellina della commissione esteri della Camera) a Savyon Liebrecht, autrice del libro La Banalità dell'Amore, sulla relazione mai morta tra i filosofi Hannah Arendt e Martin Heidegger. La prima costretta a lasciare la Germania con l'avvento del Nazismo per via della sua religione ebraica, il secondo il suo maestro, poi divenuto fervente nazista. L'amore di lei per lui, tuttavia, non venne meno nonostante tutte le contingenze storiche e su quest'amore la scrittrice si interroga.
Ma noi non parleremo del libro, che di per sé tratta un argomento interessante, ma certamente non di stretta attualità. Si tratterà invece dell'intervista che la scrittrice ha rilasciato alla giornalista, una serie di dichiarazioni che sono di grandissimo interesse per comprendere una delle realtà socio-politiche più importanti dell'ultimo mezzo secolo, lo Stato di Israele.


Se noi provassimo a raccogliere in giro per il mondo milioni di persone provenienti dai paesi più disparati, con alle spalle le storie più diverse e con il sottofondo culturale più disomogeneo, ma uniti solo dall'identità religiosa, allora molto probabilmente la speranza di trasformare questi uomini in una nazione si rivelerà una vana chimera. Eppure in un certo momento storico, il 1948, milioni di persone con queste caratteristiche proclamarono l'indipendenza del loro nuovo Stato e lo difesero con le armi alle immediate reazioni belliche dei loro vicini.
Messa così la faccenda, tutto sembra incredibile. Ma allo stesso modo tutto diventa più chiaro inserendo gli altri tasselli del puzzle, forse più marginali all'apparenza, ma sostanzialmente fondamentali. Per prima cosa, il sionismo, il nazionalismo ebraico, aveva forgiato una cultura capace di esaltare gli aspetti culturali comuni delle tantissime comunità ebraiche grazie alla fede religiosa ed aveva, anche per reazione all'odio diffuso contro gli ebrei, forgiato un popolo dove prima ce n'erano migliaia. In seguito il sogno di una terra, per gente senza terra, aveva creato un senso di attaccamento e di appartenenza alle nuove concessioni ottenute difficilmente riscontrabile in situazioni diverse. Infine la paura e la persecuzione ai massimi livelli, la Soluzione Finale, avevano messo sulla stessa barca le varie esperienze comunitarie ebraiche, rafforzando l'idea che la salvezza passa attraverso l'avere una propria terra dove, bene o male, convivere.
Ma tutto ciò non basta per avere uno Stato. A riprova, esaminando la struttura sociale della neonata repubblica israeliana, scopriamo che le comunità ormai stanziate erano perlopiù agricole, organizzate in centri rurali omogenei per provenienza degli immigrati e abbastanza isolati tra loro. L'organizzazione del kibbutz con il suo forte comunitarismo e il suo semplice socialismo dà la misura dell'atomismo di questa nuova nazione.
Per avere uno Stato servono un nazionalismo, un'ideologia comune ed una cultura comune, tre fattori che Isreaele cercò di forgiare nei primissimi anni di vita e che spinsero e spingono ancora oggi a vedere con scarso entusiasmo i ripetuti tentativi degli immigrati di ricreare nella nuova patria il mondo abbandonato nella vecchia patria.


In questo quadro si collocano le affermazioni contenute nell'intervista di Liebrecht, dove il ruolo degli ebrei tedeschi nella nascita di Israele è esaminato in modo abbastanza critico. La scrittrice, infatti, osserva come le comunità ebraiche tedesche siano sempre state le più tedesche e le meno ebraiche, in una sorta di "sindrome di Stoccolma" che le rendeva prigioniere della cultura di quel popolo che le aveva così ferocemente perseguitate. Si ricorda che gli immigrati mitteleuropei l'ebraico lo hanno sempre parlato male, mentre frequentissima è stata la costituzione di circoli in cui gli ex connazionali potevano ritrovarsi per tornare con la mente e coi gesti a quella Germania di cui Hitler era stato solo un ospite austriaco e che non potrà mai essere ridotta al solo nazismo.
Questa sindrome di Stoccolma è quella che avrebbe legato anche la Arendt a Heidegger, in una relazione poco razionale e molto sentimentale che avrebbe fatto perdonare fin troppo facilmente alla filosofa le colpe dell'amato, contrariamente alla posizion da lei assunta nei confronti di Eichmann (ne La banalità dle male). Ma, si rimprovera inoltre, questa prigionia nel passato ha impedito alla Arendt di dare il sostegno dovuto al nuovo Stato di Israele, sommerso di critiche contro la sua dirigenza e la sua opinione pubblica sempre nella stessa opera, con un atto di accusa per lo svolgimento del processo ad Eichmann (più simile ad una ostentazione di fierezza israeliana che ad un serio tentativo di comprendere cosa accadde in quegli sciagurati anni) che, sebbene spesso corretto nella sostanza, nei toni è inaccettabile.
La prima reazione alla lettura dell'articolo è stato un pensiero a ciò che sta accadendo alle Giornate della Memoria degli ultimi anni, ovvero la trasformazione delle stesse in giornate dell'oblio o della polemica su uno Stato: ancora qualche anno con dichiarazioni simili e presto l'Olocausto si trasformerà in una sfilata di bandiere israeliane da una parte e di bandiere palestinesi dall'altra, mentre il senso delle commemorazioni verrà meno del tutto. Non ha senso trasformare il ricordo del massacro perpetuato da un fanatico totalitarismo nei confronti di tutti i diversi presenti nelle sue terre (ebrei, zingari, testimoni di Geova, omosessuali, handicappati e via dicendo) nell'occasione per discutere un problema politico odierno come la risoluzione di una controversia tra uno Stato sovrano ed un popolo senza Stato.
Poi, rileggendo l'articolo, si comprende che forse la prigionia non è quella degli ebrei tedeschi, espatriati dalla loro terra che ormai era loro ostile e costretti a trafugare la loro grandissima cultura di secoli di altissima filosofia e letteratura nel bel mezzo del sospetto dei loro nuovi compatrioti, ma quella degli israeliani rimasti fermi a quelle giornate del 1960 in cui si celebrà il processo ad Eichmann, aggrappati ancora all'equazione giustizia per l'Olocausto-rivalsa israeliana che da un alto impedisce di comprendere, come denunciava la Arendt, dall'altro crea quella concezione di Israele come cittadella-baluardo che di certo non contribuisce né ai processi di pace né all'accettazione da parte delle opinioni pubbliche d'Occidente delle sue politiche.
Non si può sottomettere il desiderio di comprendere la realtà, la più nobile delle aspirazioni umane, al serrate-le-fila di una nazione che si sente assediata. Non si può usare una religione per mettere a tacere la ricerca filosofica razionale. Non si può, infine, pretendere che tutti gli intellettuali vestano la divisa della loro etnia/nazione/fede di appartenenza vietando le voci dissenzienti, per quanto poco tenere siano. Se una democrazia ha un vantaggio, questa è la possibilità di critica delle scelte della maggioranza, la facoltà di avanzare proposte alternative che permettono di vagliare meglio quelle sul piatto e, con ponderazione maggiore, fare le scelte più utili. Il nazionalismo militante, invece, vuole imbavagliare ogni voce contraria creando quelle entità mostruose e monolitiche che vanno avanti per forza di inerzia, chiuse al dialogo e capaci di comprendere solo il linguaggio della forza.
Forse, allora, se c'è una cosa da imparare dalle commemorazioni delle infinite vittime del nazismo, questa è appunto la necessità di saper coesistere col diverso, con chi non si è incasellato nell'inquadramento nazionalista, che sia lo zingaro senza terra, l'ebreo chiuso nel ghetto o l'intellettuale dissenziente. Tre facce di un unico problema che appare regolato più da regole formali, che da assiomi contenutistici.

venerdì 30 luglio 2010

Sia anatema!

I nostri elettori non tollerano più che nei confronti del governo vi sia  un atteggiamento di opposizione permanente , spesso oggettivamente  in sintonia  con posizioni e temi della sinistra e delle altre forze contrarie alla maggioranza, condotto per di più da uno dei vertici delle istituzioni di garanzia.  Non sono più disposti ad accettare una forma di dissenso all'interno del partito che si manifesta nella forma di una vera e propria opposizione, con tanto di struttura organizzativa, tesseramento e iniziative, prefigurando già l'esistenza sul territorio e in Parlamento di un vero e proprio partito nel partito, pronto, addirittura, a dar vita a una nuova aggregazione politica alternativa al PDL. I nostri elettori, inoltre, ci chiedono a gran voce di non abbandonare la nuova concezione della politica, per la quale è nato il Pdl, che si fonda su una chiara cornice culturale e di valori, sulla scelta di un chiaro e definito programma di governo, su una compatta maggioranza di governo e sull'indicazione di un Presidente del Consiglio, in una logica di alternanza fra schieramenti alternativi.

Con queste parole il documento della segreteria del PdL ha messo alla porta Fini (lui solo idealmente, dato che la tessera non ce l'ha) e i finiani (deferiti invece ai probiviri), rei di andare contro la volontà degli elettori catalizzata e personificata in Cesare, Napoleone jr. Così, in questo crepuscolo di neo-personalismo, Berlusconi ancora una volta cerca di fare la mossa risolutiva, l'azzardo finale, che dovrà sparigliare i giochi e, con l'aiuto dei media di regime, trasformare questo primo sfaldamento del suo partito personal-plebiscitario in un repulisti interno, in un'operazione chiarezza (come dice lo scondinzolante Minzolini) del chi non è con noi è contro di noi.
Risciurà Napoleone jr-Cesare nella sua ennesima impresa? L'opinione pubblica italiana è abbastanza narcotizzata e assuefatta a tutte le follie dell'Imperatore da poter digerire perfino un'espulsione che sa tanto di anatema, visto che si denuncia che "l'On. Gianfranco Fini ha via via evidenziato un profilo politico di opposizione al governo, al partito ed alla persona del Presidente del Consiglio". Coloro che si sono definiti fino ad oggi finiani, che si sono schermati con questa foglia di fico mentre votavano e applaudivano Cesare che riempiva i posti cardine del potere di mafiosi, piduisti e pitreisti, corrotti, imbroglioni e faccendieri, avranno ora il coraggio di far seguire alle parole i fatti, scaricando anche loro il vecchio Padrone per seguire il loro presunto leader? Io sono pessimista.
Se non altro la notizia positiva è che si è finalmente scoperto che anche nell'attuale centrodestra c'è qualcuno in grado di pensare con la propria destra, cosa fino a qualche mese fa assolutamente impensabile, visto l'aspetto monolitico da falange macedone che appariva all'esterno ogniqualvolta era al voto una delle tante leggi-vergogna di Cesare.

mercoledì 28 luglio 2010

Ciò che sulla Cisgiordania non si vorrebbe sentire e nessuno sente

La Cisgiordania (in inglese West Bank, sponda occidentale) è quel territorio a ovest del fiume Giordano che nella spartizione del 1948 fu assegnato allo Stato palestinese, che poi fu occupato dalle truppe della Transgiordania (poi divenuto Regno di Giordania) e che infine è stato (almeno nella sua maggiore parte) riconcesso all'Autorità Palestinese in attesa della fondazione del nuovo Stato. La sua popolazione palestinese è di oltre 2 milioni e 300 mila abitanti, moltissimi dei quali soto la soglia della povertà o stipati nei campi profughi (perché scacciati dalle loro terre progressivamente passate ad Israele). In compenso nella stessa Cisgiordania vivono più di 300 000 coloni israeliani, stabiliti in insediamenti abusivi (è vietata dal diritto internazionale la colonizzazione delle terre occupate militarmente) e destinatari di un privilegiatissimo trattamento da parte del loro governo, grazie a sgravi fiscali, programmi di sviluppo economico e larghi investimenti in welfare e istruzione.
Le terre dei coloni sono state tutte recintate di muri di cemento armato e valli di filo spinato, per impedire qualsiasi contatto tra i loro residenti e la popolazione indigena palestinese, come pure l'approvigionamento idrico è differenziato a seconda che si sia da una parte o dall'altra di queste barriere. Nel corso del processo di pace, ci informa la ONG EWASH (Emergency Water, Sanitation and Hygiene) che si occupa della situazione idrica dei Territori Occupati, si è raggiunto un accordo tra il governo di Fatah e quello isrealiano per la spartizione della non molta acqua presente nella regione, che proviene da due fonti, il fiume Giordano e la falda acquifera sotterranea.
La principale e più facilmente fruibile fonte è naturalmente il fiume Giordano, infatti attualmente così largamente sfruttato che la sua portata alla foce è ridotta a 30 metri cubi al secondo (ovvero da rigagnolo, tanto che il livello del Mar Morto è in diminuzione). Tuttavia la riva del Giordano è integralmente sottoposta al controllo militare israeliano e lo sfruttamento di queste acque è integralmente riservata ai coloni israeliani.
Resta la falda acquifera che, come ci informa Amnesty International, subisce uno sfruttamento impari da parte delle due comunità: i 300 000 israeliani, infatti, possono disporre dell'80% dell'acqua pompata, così che sono riusciti a trasformare le loro terre in quei giardini lussureggianti e fertili che tutto il mondo ammira e per i quali unanimamente si riconosce merito agli israeliani; i 2.300.000 palestinesi, al contrario, possono contare solo sul 20% della risorsa, quantità palesemente insufficiente ai loro bisogni.
Così la piccola agricoltura palestinese, che forniva a gran parte della popolazione cisgiordana il sostentamento, adesso è in piena crisi e per molte comunità pastorali l'alternativa è tra la vita di stenti e l'emigrazione. Emigrazione che forse sarà molto gradita dalle autorità israeliane, dato che si denuncia da parte di fonti arabe che alla Knesset (parlamento di Israele) sia stata presentata una mozione per dare una particolare interpretazione alla Teoria dei Due Stati (ovvero quella che vuole la pace con la costituzione di uno Stato palestinese): cacciare tutti i Palestinesi dalle terre a ovest del Giordano e trasferirli in Giordania, la loro nuova patria.
Finché Israele non si rassegnerà a rinunciare ai deliri di quei leader religiosi che credono di essere ai tempi di re Davide e farneticheranno ancora di Terre Promesse e doveri sacri, allora la colonizzazione delle terre occupate andrà avanti, le ingiustizie proseguiranno e la pace sarà solo un lontano miraggio

domenica 25 luglio 2010

Caro Silvio

Su Youtube si può trovare questa bella canzone, per adesso senza nome, ma che noi chiameremo Caro Silvio per via del suo tormentone. Un inno di singolare bellezza e arte, che riporta il nostro pensiero ai decenni passati, a quel Ventennio che, dopo aver portato l'Italia in una guerra-baratro, adesso è ricordato da molti italioti come un modello elevatissimo di politica italiana. In questa Italietta nostalgica troviamo sedicenti cattolici (che si dimenticano che il Duce usò la Chiesa a suo uso e consumo, ma chiuse le associazioni cattoliche), sedicenti liberali (che dimenticano che sul liberalismo Benito scriveva peste e corna) e sedicenti filoamericani (che si dimenticano che il Regime crollò con molti edifici italiani sotto le bombe a stelle e strisce). Ma godiamoci insieme la canzoncina.

venerdì 23 luglio 2010

Meglio che il cittadino non se ne intenda troppo di leggi

Uno dei principi cardine dello Stato di diritto e il fondamento stesso della certezza dei rapprti giuridici è la conoscibilità delle disposizioni di legge. Un tempo per conoscere le leggi esistenti occorreva la lettura periodica delle Gazzette Ufficiali, oppure ci si doveva affidare alla meticolosa opera di compilatori, dato che la cosiddetta decodificazione aveva portato alla nascita di miriadi e miriadi di leggi estranee ai codici tradizionali. Oggi, invece, lo strumento di internet permette una molto più semplice reperibilità delle risorse che, se non fosse per la lingua solo lontanamente imparentata con l'italiano in cui sono scritti gli articolati approvati dalle Camere, potrebbe veramente sfoltire quell'intrico di intermediari, esperti ed azzeccagarbugli che impedisce al cittadino l'autotutela giuridica e fomenta contenziosi inutili e scelte sbagliate che si tramutano sempre in lauti onorari per i giuristi.
In particolare sono nati motori di ricerca sempre più raffinati per trovare leggi e sentenze, il migliore dei quali, almeno sul piano legislativo, era il portale gestito dal Ministero della Giustizia, Norme in Rete. Servizio che da qualche mese a questa parte è stato eliminiato.
Una regressione? L'ennesimo tentativo della chiusura di casta della nostra società? Forse. O più semplicemente la consapevolezza che un cittadino troppo informato, capace di conoscere le leggi e capire cosa di tutte queste riforme confuse e ridondanti che ci stanno presentando in questo periodo porterà effettivamente un beneficio e cosa, invece, rischia di trasformarsi in un danno per lui, è un cittadino troppo pericoloso.

mercoledì 21 luglio 2010

Un'etica fondata sulla ragione (III parte)

Senza una valida base su cui fondare i nostri postulati da cui, con metodo razionale, ricaveremo la nostra etica fondata sulla ragione, il terreno sembra mancarci da sotto i piedi. Bene e male diventano relativi, se non esiste nessun criterio di discernimento che ci permette a pelle di distinguerli in senso assoluto, se tutto viene lasciato alla contingenza del momento e del luogo. Il nichilismo è a un passo, in questo modo.
Sarebbe forse necessario scegliere un sistema di riferimento tra i tanti, quello che ci piace di più, che consideriamo più congeniale alle nostre esigenze, ma anche così come faremo a stabilire quale tra i tanti effettivamente merita di essere scelto? Con una votazione democratica a maggioranza? Oppure, come fanno i costituzionalismi, ricavando dall'accordo di tutte (o quasi) le forze in gioco una serie di principi cardine immutabili e poi lasciando alla dialettica delle maggioranze il resto? Forse potrebbe essere questa l'unica strada per un'etica condivisa, anche se così davvero l'etica si confonderà con la legge e l'unico schermo che ci separerà dal volontarismo dei totalitarismi saranno quei principi immutabili posti a incorniciare la società.
Forse sarà questa la soluzione, ma allora sarà una soluzione in cui l'unica ragione che servirà sarà quella del principio di non contraddizione tra i vari livelli etici. Ci sarà il primo livello che sarà quello delle facoltà, ovvero le asserzioni non tutelate da norme statali, poi ci sarà quello delle norme etiche demandate alla dialettica delle maggioranze e infine, al vertice, ci saranno le norme sottratte al gioco delle maggioranze. Così che nulla del livello inferiore potrà confliggere con ciò che è sopra di esso.
Ma è una base etica, questa, o piuttosto un compromesso che, privo di qualsiasi rapporto col tessuto sociale, ha bisogno di leggi e coercizioni per tenersi in piedi? E può reggersi davvero in piedi un sistema che si regge solo sulla coercizione e non sulla condivisione?
C'è chi ha sostenuto una via di fuga molto particolare, un misto di ipocrisia e di opportunismo che a qualcuno potrebbe risultare blasfemo (tra chi è religioso), mentre ad altri è piaciuto molto per gli scenari che apre (e mi riferisco alle alte gerarchie ecclesiastiche): l'accettazione ipocrita di una religione non condivisa per ricavare da essa la base di tutti i valori che ci servono, contro il relativismo e il nichilismo. Ma si tratta, ovviamente, di una soluzione opposta a quella che noi cerchiamo, ovvero all'etica fondata sulla ragione. Sarebbe un'etica fondata sull'imposizione e sulla finzione.
E allora, oltre al nichilismo, ci resta qualcosa oltre all'alternativa relativista, ovvero permettere a tutte le opzioni etico-culturali di confrontarsi, di mescolarsi e di contrapporsi per giungere, con la dialettica ed il dialogo, ad un compromesso di volta in volta valido per tutti? E' dura, ma forse è l'unica alternativa all'etica religiosa.

Le puntate precedenti:
Introduzione
Parte prima
Parte seconda

Due magistrati che fanno ancora paura

Il 23 maggio del 1992 una bomba fatta esplodere sull'autostrada di Capaci causò la morte del magistrato Giovanni Falcone. Il 19 luglio dello stesso anno fu assassinato, in circostanze molto più oscure, anche l'altro protagonista del maxiprocesso a Cosa Nostra, Paolo Borsellino. I due, che avevano fatto tremare la cupola in vita, da morti divennero dei simboli e degli eroi, sebbene la loro uscita di scena permise l'assestamento di un nuovo equilibri tra Stato e Mafia, quell'equilibrio che i loro processi avevano messo a repentaglio.
Ora, a 18 anni esatti di distanza dalla morte di Borsellino, Cosa Nostra ha abbattuto le statue dedicate ai due magistrati nel bel mezzo dell'omertà generale (nessuno ha visto niente, come al solito) e la manifestazione commemorativa delle due stragi è stata disertata dai più. Qualcuno potrebbe vederci la morte di un sogno e la vittoria delle cosche. Ma forse così non è.
Il fatto che a 18 anni di distanza dalla loro morte i due giudici siano ancora considerati due simboli, forse fa ben sperare. E forse fa ben sperare anche il fatto che Cosa Nostra, lungi dall'essere stata tranquillizzata dalla loro eliminazione, senta ancora il bisogno di attaccarli, di distruggere le loro icone, di demolirne i simboli: non potendo più prendersela con loro, su cui è ormai divenuta impotente, perché se non riesci a terrorizzare una persona da viva, allora quando è morta per te è lontana e intoccabile. allora cerca di avere soddisfazione sulle cose che li ricordano.
Attaccare le statue è un segno di debolezza, non di forza. Una mafia forte, che è sicura della propria impunità, che fa affidamento cieco sul sostegno e sull'omertà infinite di un intero popolo, non teme due uomini che ha ucciso. Ma una mafia che sa che, come questi due uomini hanno avuto il coraggio di opporsi e di infliggerle duri colpi, così da chiunque potrà nascere la rivolta, il sovvertimento della pax mafiosa, allora questa è una mafia che colpisce alla cieca, che ha paura. E se il nemico considerato invincibile ha paura, allora forse non è così invincibile.

domenica 18 luglio 2010

Il problema degli italiani per il Corriere: l'energia rinnovabile

Così in un articolo di Massimo Mucchetti apparso nelle pagine dei commenti del Corriere della Sera del 15 luglio si è trattato il tema delle energie rinnovabili "nobili", ovvero di quelle fonti di energia come il fotovoltaico ed il microeolico che permettono ai consumatori stessi di contribuire alla produzione di corrente elettrica e di immettere nella rete le eccedenze, riducendo in tal modo la produzione di elettricità da combustibili fossili, inquinanti e tutti importati dall'estero (ai prezzi che sappiamo).
Che cosa ci avranno trovato di male quelli del Corriere, allora, nell'incentivo per l'istallazione di questi mini-impianti che creano occupazione in questo periodo difficile, migliorano la situazione ambientale, fanno risparmiare ai consumatori e mettono l'Italia sulla buona strada per il raggiungimento degli obiettivi internazionali ambientali? C'è che appunto sono incentivi pagati dall'ENEL, ovvero con le bollette degli utenti stessi, dato che il gestore della rete finisce sempre per rivalersi sui clienti finali. La tesi dell'articolista, dunque, è che è una tassa iniqua quella che sorge a carico degli italiani per premiare coloro che si sono dati alla produzione casalinga di energie rinnovabili. Una tassa iniqua che colpisce le famiglie a basso reddito che consumano più corrente perché più numerose.
Ora, dispiace costatare che per l'ennesima volta un articolista del Corriere non abbia perso l'occasione per starsene zitto ed evitare di fare sfoggio di ignoranza sui temi che tratta. I fatti sarebbero, infatti, abbastanza chiari: l'Italia entro il 2020 deve produrre il 20% della propria corrente elettrica da energie pulite, ovvero fotovoltaico ed eolico, dato che il nucleare finirà per essere un rimedio peggiore del male per le ragioni che abbiamo già esposto qui e qui. Dunque l'aumento di produzione di energia da queste fonti risparmierà al nostro paese pesanti sanzioni economiche per l'inadempimento agli obblighi assunti.
Inoltre, a differenza di altre fonti come il termoelettrico, il fotovoltaico ed il microeolico richiedono per le istallazioni piccole maestranze specializzate, dando così linfa alle microimprese che, soprattutto al Sud, dovranno fare da volano per la ripresa dalla grande crisi che ci attanaglia. Inoltre, e cosa più importante, queste tecnologie assorbiranno esperienze ed occupazione italiane, mentre il preferito nucleare ci farà importare una grande quantità di tecnici ed ingegneri stranieri, dato che l'Italia è al palo nel settore.
E' infine risibile l'affermazione che sarebbero le famiglie a basso reddito le maggiori consumatrici di energia in Italia. I contratti di somministrazione di corrente sono scaglionati per KWh, per cui il contratto che solitamente sottoscrive una famiglia media è quello da 3,5 KWh, uguale per tutti gli utenti. Chi stipula contratti per forniture superiori, invece, non è certo una famiglia a basso reddito, ma semmai qualcuno che la corrente può permettersi di sprecarla in abbondanza. E' dunque giusto che paghi di più per finanziare chi punta all'efficienza energetica. Semmai, in materia, si potrebbe auspicare un intervento legislativo che venga incontro ai consumatori più svantaggiati per sostenerli nella bolletta (anche se è arduo, in queste difficoltà finanziarie), ma non come vuole un articolista tagliare i fondi alle rinnovabili.
Ma l'articolista non ci sente da questo orecchio: il problema è che tutti si possono montare il pannello solare, non che la Germania, paese certo non assolato come il nostro, sia più avanti di noi nel fotovoltaico e che noi invece di puntare alle fonti rinnovabili costruiamo centrali a carbone e progettiamo reattori nuclerai con tecnologia di qualche lustro fa.

sabato 17 luglio 2010

Più papisti del Papa

La Chiesa serra i ranghi contro il dilagare del crimine di pedofilia tra i suoi membri ordinati e lo fa con una stretta sia di diritto sostanziale sia di procedure processuali. Per prima cosa, si è creato un rito abbreviato per gli accusati di questo tipo di fatti, in modo che la verità sia più rapida da accertare e la giustizia civile non sia costretta ad intervenire solo molti anni dopo i fatti. Poi si sono allungati i tempi di prescrizione, per poter reprimere anche gli abusi più lontani nel tempo e che, per la delicatezza delle situazioni soggettive, hanno trovato testimoni disposti a parlare solo dopo molti anni: la mente di un minore vittima di pedofilia è comunque devastata e spesso e volentieri si sono registrati casi di plagi. Le pene, infine, sono state più severe e severissimo sarà anche il trattamento riservato a chi solo deterrà materiale pedopornografico.
Ma il grosso della riforma è un altro e sta nel modo in cui sarà condotto il processo canonico. Tradizionalmente la giustizia ecclesiastica è stata sempre impostata sul modello penitenziario, dove l'obiettivo era quello di redimere le anime, non quello di punire i crimini. Così, come in confessione, il segreto degli atti è sempre stato assoluto e solo chierici hanno sempre potuto giudicare i chierici. Ma adesso il sistema cambierà radicalmente con l'introduzione di laici negli organi giudicanti e con la possibilità di istituire collaborazioni tra la giustizia ecclesiastica e quella civile dello Stato, per reprimere al meglio i crimini e garantire le vittime.
E in questo clima di riforme che fanno i gruppi e gruppetti cattolico-fondamentalisti, i giornali come Il Foglio che non credono in Dio, ma nel cardinale Bagnasco, gli atei devoti e i politici "cattolici" che non fanno la comunione la domenica? Ovviamente continuano a sostenere che è in atto una cospirazione contro la Chiesa, che il problema pedofilia è stato gonfiato e che le magistrature del mondo intero sono giacobine e stanno ingiustamente perseguitando la Chiesa.
Così, mentre ancora una volta la Chiesa cerca - con fatica - di rinnovarsi e di ripulirsi, sono sempre all'opera e attivissimi tutti quei gruppi che sguazzano nella situazione attuale o (forse peggio) che per fanatismo non vogliono e non riescono a vedere ciò che anche il Papa stesso ormai vede e ritiene assolutamente alla luce del sole.
Cattolici e atei che, come al solito, sono più papisti del Papa.

Giustizia e politica

E' stato sempre difficile aver a che fare con gli elettori di centrodestra (berlusconiani dichiarati, oppure berlusconiani che si vergognano di essere tali e quindi si definiscono finiani) perché ogni volta che si citavano sentenze e indagini a carico dei loro beniamini (li chiamo così, perché il loro sostegno acritico è da tifo da stadio) loro se ne uscivano con l'obiezione preconfezionata: ma la magistratura è politicizzata e manovrata dalla sinistra. Ugual cosa dicevano sui dipendenti pubblici (colpevoli, a loro patetico dire, di aver danneggiato il PdL in Lazio!) e sulla scuola (in particolar modo sulla scuola, che ora sono felicissimi di veder smantellare: troppa istruzione fa male).
Purtroppo adesso le recenti intercettazioni telefoniche (ma diranno che sono fraintendibili? Boh!) ci fanno leggere che se c'è stata politicizzazione e corruzione dei giudici, a quanto ne sappiamo, semmai è stata ad opera di politici di centrodestra e faccendieri loro amici. Verdini e Dell'Utri, dunque, manovravano i giudici e promettevano loro incarichi e prebende fino alle più alte sfere, visto che avevano nel giro perfino l'ormai pensionato primo presidente della Corte di Cassazione Vincenzo Carbone, per via di promesse circa la sua carriera futura come presidente di un'autorità "indipendente" (la Consob).
In un intreccio che tirava dentro imprenditori, politici e mafiosi, quindi, molti magistrati erano stati adescati e reclutati nella rete, in un tentativo di sottoporre a capillare controllo gran parte delle istituzioni democratiche del paese da parte dei più stretti collaboratori di Berlusconi. Il che fa il paio con quell'altra inchiesta apparsa mesi fa, quella sulla cosiddetta "cricca": imprenditori, faccendieri, politici, vertici della protezione civile, prostitute e gente molto vicina al Vaticano insieme per esercitare una costante opera di pressione sui pubblici poteri.
Che cosa diranno, ora, gli elettori di centrodestra? Continueranno a blaterare che istituzioni e poteri forti sono coalizzati contro il povero Napoleone jr, che i mezzi di comunicazione sono in mano alla sinistra e che la magistratura è monopolizzata dalle toghe rosse giustizialiste? Oppure potremo sperare che anche loro, una buona volta, smettano di guardare Rete4 e comincino a ragionare con la loro testa?

giovedì 15 luglio 2010

Un'etica fondata sulla ragione (II parte)

Forse la chiave di tutto sta nela nostra scarsa attitudine al pesare i termini che usiamo e di cui, spesso, abusiamo. La parola "ragione", per esempio, ha subito a partire dal periodo illuminista uno scivolamento ideologico impressionante. In precedenza, la ratio era solo una parte dell'animo umano, insieme al sentimento e alla concupiscienza: era la capacità di formulare giudizi a partire da premesse, la capacità di dominare le passioni, la capacità di fare tutto ciò che differenzia l'uomo dagli animali. In particolare, la parte principe della ragione era la logica, ovvero l'arte del ben ragionare, del ben scegliere le premesse e da esse trarre le corrette conclusioni.
In seguito, invece, la parola ragione si è tinta di un connotato positivo e luminoso, traslando dal piano della forma a quello della sostanza. Così la parola ragione contrasta con termini come superstizione, pregiudizio, ignoranza e, talvolta, religione (basta ricordare lo slogan di un recente film di successo praticamente boicottato in Italia: usa la ragione, non la religione). Tuttavia questo passaggio semantico dal formale al sostanziale del significante non è stato assolutamente accompagnato da un parallelo ampliamento effettivo del significato. La ragione, infatti, continua ad indicare un semplice metodo mentale, non i concetti contenuti nella nostra mente. Si sa, il piano dell'effettività è una cosa, quello delle nostre immagini mentali è un altro.
Dunque sembra abbastanza logico porsi la domanda che ci siamo posti all'inizio, ovvero se sia possibile postulare un'etica fondata sulla ragione. Ma se ragione, come abbiamo detto, è una parola che indica solo un procedimento formale di trattare le premesse per ottenere le conclusioni, a che principi sostanziali si rifà questa nostra etica ricavata con metodo razionale? La risposta è semplice e nello stesso tempo desolante: i principi sono quelli che la nostra società ha ereditato, oltre a quelli ottenuti con metodo razionale rielaborando i principi-premessa ereditati.
Non è questa la sede opportuna per indagare su quale sia l'origine di questi principi da noi ereditati. E' abbastanza banale richiamare le idee cristiane che sempre, volenti o nolenti, finiscono per influenzarci, ma poi si devono citare anche le eredità delle scuole filosofiche classiche, le negazioni del passato che dal Seicento in poi hanno costellato il pensiero occidentale, le influenze arabe, eccetera. Ma siamo davanti ad un coacervo incommensurabile di contenuti difficilmente individuabili e separabili tra loro.
E dunque, sembra di capire, l'etica finirebbe per essere relegata alla contingenza dei principi in un certo momento alla moda. Tali principi, quindi, sarebbero eletti a razionali o a ragionevoli e sarebbero imponibili a tutti sulla base della contingenza del momento. La ragione, invece, interverrebbe solo in un momento successivo, ovvero in caso di scontro tra principi parzialmente incompatibili (e quindi in mediazione), oppure in fase di ottenimento di un nuovo enunciato a partire da postulati di base (e quindi in produzione). Un po' poco per parlare di etica fondata sulla ragione.
Un'etica del genere, inoltre, solo ipocritamente potrebbe autoaffermarsi vincolante per tutti, mentre molto più onestamente può dirsi una media ponderata delle concezioni diffuse in una data società, concezioni che finiscono per essere plurali e spesso inconciliabili e che ci costringerebbero di volta in volta, in caso di contrasti e spaccature, o ad ampliare il campo dell'eticamente indifferente, oppure ad imporre sulla base del principio maggioritario una delle più opzioni esistenti. E, ovviamente, consapevoli che nel primo caso avremo catalogato come eticamente indifferente un tema niente affatto indifferente, mentre nel secondo che magari si starà facendo ingiustizia, ma sulla base della forza dei numeri (e abbiamo visto questo cosa può portare).
Si potrebbe a questo punto discutere se un'etica religiosa sia o meno immune da questo rischio. Se, infatti, è vero che una persona di fede tenderà a dichiarare immutabili i postulati fondativi della propria religione, la pratica e la storia, invece, ci insegnano l'esatto opposto, ovvero che anche nel discernimento del giusto dallo sbagliato, del bene dal male, all'interno delle confessioni religiose si è registrata evoluzione, a volte anche profonda. Un esempio può essere fornito dalla concezione della guerra offensiva nel cristianesimo (anche se solo cattolico). Ma, si obietterà a questo punto, comunque l'importante è che il postulato sia considerato immutabile per mano umana, ragione per cui nessuno volontariamente cercherà di cambiare il codice etico, ma semplicemente esso sarà "vittima" di una costante quanto involontaria evoluzione. E forse che non è questo ciò che si è sempre rimproverato all'etica religiosa, ovvero la sua rigidità anche davanti all'ingiustizia palese e la sua cieca ostinazione nel tenere alti principi morali disconosciuti dalla società tutta e che agli occhi di tutti portano più male che bene alla gente?

mercoledì 14 luglio 2010

Un'etica fondata sulla ragione (I parte)

Dunque due sono le vie etiche possibili una volta rifiutata la presenza di Dio, oppure una volta che si è stabilito che il divino non debba essere usato come fondamento dei nostri codici comportamentali. La prima via prevede il rifiuto dell'etica e la riduzione del comportamento all'edonismo. Tale è la via di Epicuro e di Nietzsche, dove, con risultati diversi, si enuncia che il problema morale non deve essere posto all'individuo, che invece deve mirare sempre e solo al proprio benessere e alla propria realizzazione. Tuttavia mentre in Epicuro amicizia, bontà e compassione sono chiavi per lo stare in pace con se stessi e raggiungere il piacere, per Nietzsche nulla deve frapporsi tra l'individuo e la sua volontà di potenza, in un trionfo senza freni della volontà individuale e la riconfigurazione di quello che ho già avuto modo di definire qui come il tentativo di autodivinizzazione a scapito dei nostri simili. Chiaramente questo punto di vista finisce per relegare alla buona volontà del soggetto il compimento o meno del bene e l'adeguamento o meno ad un certo codice comportamentale che sia garante delle esigenze e dei bisogni altrui.
Dunque sarebbe da preferire il secondo filone di pensiero, che invece desidera salvare l'etica e, conscio del fallimento degli ideali giusnaturalisti classici, dello stato etico e del volontarismo della sovranità, prova a porsi nuovi postulati da cui ripartire, nuove premesse su cui costruire il discorso morale. Ma che postulati possiamo porci per fondare questa nuova etica razionale?
La prima tentazione è quella giusnaturalista. Il bene e il male sono in qualche modo due concetti naturali, insiti nella natura stessa della mente umana, dell'uomo come animale sociale che deve mediare il proprio istinto alla sopravvivenza e all'autorealizzazione con l'istinto di aggregazione in formazioni sociali stabili. Da qui nasce l'esigenza di stabilire cosa è bene e cosa è male, dato che ciò che fa piacere a noi sappiamo bene che non fa piacere agli altri. Dunque sorgono i primi tabù, come il divieto di uccidere i membri della comunità, il divieto di derubarli, il divieto di nascondere loro la verità, eccetera. Quest'istinto, antico come l'uomo, è l'origine del nostro agire morale. Ma basta per la fondazione di un'etica razionale? E' molto difficile da afermare: stiamo parlando di regole che valgono in una ristrettissima comunità, fondate sulla dicotomia noi-loro che esclude la maggior parte degli individui dal godimento delle tutele prescritte. Inoltre nulla assicura che il bene per un individuo sia contemporaneamente il bene di un altro, visto che un'azione che ad una persona fa piacere può essere odiosa per un altra.
Che il giusnaturalismo sia un ottimo schermo difensivo per l'etica, questo è palese e lampante, tanto che anche l'etica religiosa tenta sempre di illustrare i propri precetti come naturali e immediati, ma da qui ad affermare che questo rispecchierebbe la realtà delle cose, ce ne corre. Infatti ciò non spiegherebbe le grandissime differenze tra le etiche dei vari popoli, tra le loro leggi e tra le loro concezioni della giustizia. Differenze che non siamo certo noi i primi a notare, ma che erano lampanti anche per gli antichi Greci. Dunque la natura da sola non basta a fondare un'etica.
E' normale sentirsi obiettare a questa affermazione che comunque è individuabile un'evoluzione nelle concezioni morali dell'uomo e che dunque esistono comunque dei punti cruciali, dei momenti-spartiacque, che non permettono un ritorno sui nostri passi: l'uomo cresce, le idee circolano e si sta delineando una chiara direzione del pensiero. Dunque sulla base di questo percorso dell'umanità e sulla base della ragione a tutti comune, allora è possibile fondare un'etica comune a tutti gli uomini ragionevoli (usando l'espressione di Rawls). Ma cosa si intende per "uomini ragionevoli"?
Ragionevole è una parola apparentemente neutrale, ma che in realtà nasconde in sé una marcatissima impronta ideologica. Ragionevole e razionale, infatti, furono i due termini usati dagli europei per demarcare la propria differenza con gli altri popoli del mondo, giudicati irrazionali e inferiori, così diversi dai bianchi superiori e caricati del famoso fardello che li vuole conquistatori e civilizzatori del mondo. Dunque nascerebbe una religione della ragione, per la quale i popoli subirebbero una spaccatura tra ragionevoli e irragionevoli, come anche all'interno dei singoli popoli troveremmo una distinzione tra gli individui razionali e quelli irrazionali, dove i primi si ritroverebbero "sobbarcati" del fardello della guida dei secondi. Avremmo dunque un'etica pseudo-religiosa che assume in sé il peggio delle etiche religiose (che finiscono sempre per dividere gli uomini in due categorie, fedeli-infedeli, ragionevoli-irragionevoli), senza accogliere gli aspetti positivi di alcune di esse (come la fratellanza universale).
E' possibile, dunque, avere un'etica razionale non fondata sulla "natura", ma solo sulla ragione stessa?

sabato 10 luglio 2010

Un'etica fondata sulla ragione (un'introduzione)

Nell'eterno dibattito tra credenti e non credenti è abbastanza frequente un reciproco scambio d'accuse, dove il credente è bollato come irrazionale e credulone, mentre il non credente come immorale e insensibile. Il credente medio tende a balbettare se accusato di ciò, rispondendo delle ridicole giustificazioni e spesso adducendo una indecorosa svalutazione della ragione a vantaggio del "sentire" e del sentimento. Molto meglio organizzati, invece, sono i non credenti: nonostante il non credente medio non sia qualitativamente migliore del credente medio (si osserva sempre omogeneità nei seguaci delle correnti di pensiero di massa), tuttavia i vertici del movimento ateo organizzato e le più eminenti intelligenze non credenti (che godono di tutta la mia considerazione) hanno col passare dei decenni e dei secoli rintuzzato l'accusa mossa loro dai credenti e l'hanno anzi ribaltata, accusando le religioni di empietà e postulando l'esistenza di un'etica di ragione.
Partendo dai tempi più antichi, possiamo trovare il capofila di questo ribaltamento nell'illustre Epicuro, il quale tuttavia non era propriamente un ateo, dato che credeva negli dei, ma li definiva come distaccati dal mondo e beati nel loro isolamento fuori dal mondo. Il filosofo, infatti, seguito dai suoi discepoli, affermava che la religione era stata causa di grandi nefandezze e che il non volerla seguire (dato che non avrebbe alcun senso mettersi in rapporto con divinità estranee alle nostre sorti) poteva al massimo metterci al riparo da tali empietà. Tuttavia non aveva certo intenzione di fondare un'etica nuova su basi razionali: Epicuro predicava la ricerca del piacere (quello vero, la liberazione dal dolore, non quel piacere artificiale e fittizio che rincorriamo noi oggi) e attribuiva poca importanza al livello etico, sebbene lui stesso ammetteva che è ben difficile essere empi e felici nello stesso tempo.
E' invece di origine cristiano-medievale, invece, l'idea che l'etica sia distinta dalla divinità, paradossalmente. La Scolastica, invece, accogliendo spunti stoici ed aristotelici, aveva postulato la dottrina dei due libri, secondo la quale due sono i libri rivelati all'uomo da Dio, uno le Scritture, l'altro il Mondo. Ragion per la quale il filosofo può attingere indistintamente dall'uno e dall'altro per giungere alle proprie conclusioni, visto e considerato che Scritture e realtà, fede e ragione, non possono in alcun modo contraddirsi a vicenda. Si apriva dunque la porta al giusnaturalismo, secondo il quale ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è lecito e illecito, è chiaramente individuabile dallo studio razionale ed empirico della realtà.
Così vennero il Seicento ed il Settecento, in cui prima si affermò la liberazione della filosofia dalla teologia, dell'etica da Dio, mentre poi si arrivò definitivamente a predicare il troncamento di qualsiasi legame tra la sfera secolare e quella religiosa, per cui l'etica pubblica, rappresentata dalla legge, sarebbe dovuta essere l'espressione razionale della volontà della Nazione (divenuta Popolo per i democratici) e non l'adeguamento del vivere comune ai precetti divini. E qualsiasi intrusione delle sfere ecclesiastiche nel parto di questa volontà nazionale fu represso anche col sangue (il Terrore francese, per esempio).
Nell'Ottocento, tuttavia, il giusnaturalismo entrò in profonda crisi e cominciò a diffondersi quella che viene chiamata la legge di Hume: non si devono assurgere le proposizioni descrittive a proposizioni prescrittive, ovvero ciò che è non è detto che sia ciò che deve essere. La sinistra hegeliana e Marx furono i primi grandi assertori di questa rivoluzione del pensiero etico e politico e ben presto l'etica si svincolò totalmente anche dai presupposti giusnaturalisti, rimanendo però orfana.
Il Novecento dei nazionalismi e dei totalitarismi insegnò ben presto alle masse che è etico ciò che vuole la Nazione e, poi, che ciò che vuole la Nazione è ciò che vuole la sua guida illuminata. Non c'era più posto per la religione in una società in cui religione era diventato lo Stato, la legge dello Stato e l'ideologia dello Stato. I frutti di questa concezione furono milioni di morti e queste idee furono accantonate e dimenticate dai più.
Il dopoguerra fu un'epoca difficile, in cui l'etica borghese liberale conobbe un suo revival di breve durata e poi la Contestazione seguita dal trionfo di correnti intellettuali relativiste se non proprio nichiliste distrussero qualsiasi concezione unificante che potesse essere fondativa di una morale comune. Il nostro tempo, scosso da questi sommovimenti profondi della coscienza sociale, si è trovato in balia di correnti diverse, dunque, troppo eterogenee per essere conciliate e tutte troppo deboli per imporsi e troppo forti per essere schiacciate.
Alla luce del fallimento di tutte le etiche non religiose fino ad ora sperimentate, è possibile per il nostro tempo fondare una nuova etica condivisa?

Puntate successive:

Parte prima
Parte seconda
Parte terza

venerdì 9 luglio 2010

Sciopero dei giornalisti

Finalmente i giornalisti tacciono per conto loro, senza la necessità di un bavaglio! In effetti, stava cominciando a diventare difficile l'approvazione di quella legge e, se i giornalisti stanno in silenzio di loro spontanea volontà, allora tolgono dalla groppa di Napoleone jr un peso notevole. Dovrebbero farlo più spesso, così magari la gente si potrà abituare all'assenza di notizie e non ne sentirà la mancanza quando saranno vietate per legge.
Intanto, però, non considerando lo sciopero, i nostri telegiornali, i giornali del Cavaliere e i giornali imparziali, come Il Corriere e Il Riformista, ci abituano al vuoto di fatti, rincitrullendoci tra commenti, notizie quali "fa caldo" o "d'estate la gente va in vacanza", in modo che durante lo sciopero dei giornalisti, i loro lettori e telespettatori, forse un po' stanchi di cronaca nera, possano dire sollevati che, anzi, stiamo molto meglio.

giovedì 8 luglio 2010

Democrazia militante

Una giornalista della CNN, inviata in Medio Oriente, è stata licenziata per ciò che ha scritto su Twitter in occasione della recente morte di un ayatollah (ovvero un alto prelato musulmano sciita) vicino al movimento estremista libanese Hezbollah, Mohammed Hussein Fadlallah: ha dichiarato infatti di nutrire il massimo rispetto per questo gigante di Hezbollah. Il tutto è bastato per scatenarle adddosso l'inferno. Subito è stata accusata di essere amica dei terroristi e nemica di Israele (accusa che in America è più o meno equivalente a quella di nazismo), poi è arrivata la comunicazione di licenziamento insieme ad una spiegazione della frase in questione.
E' la spiegazione della frase in questione, appunto, l'emblema dello stato di paranoia che sta cogliendo l'Occidente in questi anni, lo stato di paranoia che è ben disposto a farci dimenticare dei nostri buoni principi in nome della contrapposizione tra blocchi. La giornalista, infatti, ha sostenuto che la sua ammirazione non era affatto dovuta all'appartenenza politica del religioso, ma, al contrario, alle sue prese di posizione sulla violenza domestica contro le donne. Ha condannato con una fatwa (che è l'equivalente di un anatema) l'omicidio d'onore in caso di infedeltà coniugale.
Ma si sa, la condizione femminile era solo uno dei tanti pretesti per far piacere le nostre recenti guerre di invasione in giro per il mondo alle opinioni pubbliche, in realtà ciò che conta è il sostegno o meno offerto dai vari gruppi ai governi occidentali e filoamericani. Così mentre le offensive militari vanno avanti in nome dei diritti delle donne, le giornaliste che esprimono rispetto per gli ayatollah che si sono impegnati per i diritti delle donne vengono licenziate, in una perla di coerenza tutta da tempi di guerra.
Mentre, al contrario, governi teocratici come quello saudita che non rispettano le minoranze religiose (e anzi le bandiscono), che non riconoscono alle donne alcun diritto e detengono un potere assoluto e dispotico, ma che sono amici degli Stati Uniti e offrono porzioni di territorio alle basi americane, allora quelli sì che sono da considerare modelli da seguire e guai a chi si permette di criticarli.
Sembra, appunto, di essere tornati ai tempi della guerra fredda in cui la democrazia doveva essere un mezzo, non il fine. Un mezzo per segnare la separazione di un blocco da un altro, per affermare un certo tipo di imperialismo e per marcare una differenza. Il contrario della democrazia migliore, che sarebbe quella tesa unicamente a valorizzare l'individuo e le sue aspirazioni, senza tanto badare a quali interessi geopolitici essi possono giovare o nuocere.

lunedì 5 luglio 2010

It's time for Africa...

L'Eritrea è uno dei tantissimi paesi africani governati da giunte militari impegnate a spartire tra i propri gerarchi gli aiuti umanitari dei paesi ricchi, senza alcuna cura per il resto della popolazione, costretto a vivere nella miseria e nelle vessazioni. In particolare, il servizio militare, ovvero lo strumento che tiene in piedi il sistema di potere militarista eritreo, è a chiamata e a tempo indeterminato. Il governo, dunque, con la scusa della vicina minaccia etiope (l'Eritrea si è separata dall'Etiopia nel 1992 a prezzo di una durissima guerra), si arroga il diritto di reclutare interi strati della popolazione maschile (ma non solo) e di mantenerli in servizio per decenni in condizioni precarie e con una paga misera. Tutti i ragazzi sono costretti, nell'ultimo anno di studio, a sottoporsi all'addestramento bellico.
Così chi può si imbosca e fugge dal paese, percorrendo i cosiddetti itinerari della speranza verso i paesi mediterranei dell'Africa e, di lì, tentando la traversata verso l'Europa, dove si richiede asilo. La via parte dall'Eritrea e, attraversando in diagonale il Sahara (per Sudan e Libia) giunge sulla costa libica dove, spesso ipotecando il proprio futuro, gli esuli cercano di imbarcarsi per l'Italia. Lì sperano di vedersi riconosciuta quella prerogativa che la nostra costituzione sembra così generosamente promettere a tutti coloro che non godono delle libertà civili e politiche italiane: l'ospitalità garantita. Prerogativa che, tuttavia, in nome della necessità di regolare il flusso migratorio, è adeguatamente bilanciata in una politica stringente in fatto di visti.
Gli accordi del governo italiano con la Libia, inoltre, sono tesi a impedire perfino l'arrivo del rifugiato nel nostro territorio ed impedire di fatto perfino l'astratta richiesta di asilo politico. Dunque, se il rifugiato giunge in Italia, è spedito in Libia con un processo sommario, se invece è intercettato in mare dai radar, allora sono le autorità libiche stesse ad interrompere la sua traversata per scortarlo a Misurata, a un centro di detenzione.
Lì i secondini sottopongono l'esule a torture di ogni genere per costringerlo a firmare il foglio di rimpatrio, con percosse e reclusione in spazi ristretti, senza cibo per giorni e acqua centellinata. I servizio igienici non esistono.
E' giunta oggi in Italia la voce che una fuga di notizie da uno di questi centri ci conferma queste che a lungo erano stati semplici sospetti: 250 eritrei che sfuggivano dalla situazione descritta ora sono trattenuti in queste condizioni perché autorizzino il rimpatrio verso un paese che, al ritorno, li condannerà a morte per diserzione.

sabato 3 luglio 2010

Bavaglio o bavaglino?

Franceschini ci informa che finalmente l'opposizione smetterà di fare ostruzionismo sulla legge-bavaglio, detta anche legge-ammazza-sicurezza e legge-libera-tutti. Ci stavamo tutti quasi preoccupando che il Pd avesse cominciato a fare un'opposizione reale al governo, ma l'ex segretario finalmente ci tranquillizza e ci fa comprendere che eravamo semplicemente in presenza di un momento di sbandamento, di una defiance. Il vero Partito Democratico, da buona forza di opposizione, non può fare opposizione contro un testo promosso dal governo e dalla maggioranza e nella preparazione del quale è intervenuto perfino il Presidente della Repubblica nella veste di correttore di bozze.
Ora, molto più conformemente alla propria storia, i democratici saranno diversamente concordi, votando insieme ai finiani gli emendamenti correttivi della proposta di legge, quelle piccole modifiche che ammorbidiranno il bavaglio quel tanto che basta per rendere più difficile la sua cassazione da parte della Corte Costituzionale, ma che cambieranno poco e nulla l'impatto della legge sulla libertà d'informazione e sulla sicurezza dei cittadini. Non sarà quindi più un bavaglio, ma un bavaglino, un bavaglio gentile con il quale maggioranza e opposizione, concordi, faranno finalmente quello che Berlusconi da solo stava trovando difficoltà a fare.
Come mai il Pd non impara mai dai propri errori? Ha perso voti a tutte le elezioni, è in crisi di consenso e nei sondaggi, nonostante il governo sia ai minimi storici, riesce ad ottenere risultati di popolarità ancora peggiori. Non si sono resi conto che forse, ma forse, qualcuno dei loro elettori desidererebbe da parte del pg qualcosa di più di un ni stentato a tutte le proposte del governo? No, loro, ben istruiti dai cerchiobottisti del Corriere della Sera, del Riformista e di tutti gli altri giornali che dicono di rappresentare l'intellighenzia del paese, la parte migliore dell'Italia (quale esattamente?), credono che il problema della politica sia lo scontro.
Dunque è inutile alzare i toni, sventolare la Costituzione e i trattati europei. Non si deve protestare, andare in piazza e mobilitarsi. Non si deve. Bisogna essere tutti concordi e sorridenti, uniti e coesi intorno a Napoleone jr e al Capo dello Stato (anche se il primo insulta il secondo a piè sospinto) per affrontare insieme le avversità del futuro, per avere una linea comune davanti al naufragio nazionale.
Ebbene sì, il problema in politica è la dialettica, il no deciso a tutti i sabotaggi dello Stato di diritto, la ferma opposizione ad un governo che sta lasciando andare l'economia italiana alla deriva troppo preso dalle leggi ad personam. Perché naufragare è un piacere, ma se non si fa naufragio in compagnia (PD e PD-L), che piacere è?