mercoledì 21 dicembre 2011

A volte ritornano: l'articolo 18 e il desiderio di abrogarlo

Art. 18 - Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. [omissis]
Periodicamente questo lungo periodo della legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, viene messo in discussione e accusato di essere una delle principali cause della crisi italiana. Si dice che siamo gli unici in Europa ad avere una disposizione simile (probabilmente la Francia si è spostata in Asia, allora!) e che eliminare la tutela reale contro i licenziamenti ingiustificati avrebbe come effetto l'aumento dell'occupazione e la riduzione della precarietà.
Visto che in Francia e in Spagna (anche se in misura minore) è prevista la reintegrazione del lavoratore, possiamo escludere che la riforma dell'articolo 18 ci avvicinerà a un qualche fantomatico modello europeo. Più degne di analisi, invece, sono le altre due motivazioni portate, che promettono straordinari benefici in cambio dell'eliminazione di questa importante tutela.
Va detto per prima cosa che l'articolo 18 non vieta di licenziare in assoluto: se un'impresa è in crisi ha il diritto di licenziare, così come si può licenziare il dipendente diventato inutile e il dipendente sistematicamente inadempiente. E' vietato, invece, licenziare tanto per, licenziare per sadismo, licenziare per antipatia (in tal caso tanto vale non assumere una persona antipatica a pelle, no?) e, in generale, cacciare un lavoratore senza giusta causa o giustificato motivo.
Perché un'impresa dovrebbe essere messa in difficoltà dal divieto per il suo proprietario di cacciare su due piedi un lavoratore che fa il proprio dovere? Piuttosto un licenziamento irragionevole non rischia di fare del male all'impresa stessa in quanto la priva di un collaboratore esperto, formato e integrato? Quello che fa prevalere i gusti personali all'interesse della propria attività è niente altro che un pessimo imprenditore: se segue i propri capricci nell'organizzazione del lavoro, perché non dovrebbe seguirli anche nella gestione delle risorse economiche?
La riforma dell'art. 18 favorirebbe gli imprenditori peggiori, delegando a loro il compito di promuovere la crescita e di aumentare l'occupazione, alla faccia di tutti i bei discorsi sul merito e sull'oculatezza. Verrebbe dato l'incentivo ad assumere a chi non sarà in grado di dirigere correttamente la propria attività e che quindi sarà più portato a farla fallire, con le logiche conseguenze sul piano dell'occupazione.
Si dice poi che l'abrogazione dell'art. 18 porterebbe ad una riduzione della precarietà: si assume a tempo indeterminato se si sa che poi il dipendente sarà licenziabile a piacimento. Resta solo da capire quanto fisso sia il posto di lavoro da cui si può essere cacciati semplicemente per essersi presentati a lavoro con la cravatta annodata male. Semplicemente, privando i lavoratori di questa tutela, li si precarizza in massa.
Gli argomenti teorici esposti non sono altro che una risposta ai discorsi altrettanto teorici dei promotori della riforma. C'è chi, invece, ha provato a cimentarsi in qualche statistica, con risultati sorprendenti. Se ci sono dati contrari che potrebbero far pensare ad un'utilità dell'abrogazione, sono i benvenuti: fino ad ora gli abolizionisti si sono limitati a promettere gli indimostrati effetti taumaturgici che deriverebbero dall'eliminazione della norma.

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