domenica 3 aprile 2011

Twitter a San Francisco e la redistribuzione della ricchezza

Il capitalismo, si dice, è il migliore sistema economico che ci sia perché permette sia la massima produzione che la successiva distribuzione della ricchezza. Il concetto è semplice: l'imprenditore fa l'investimento e accumula ricchezza, con la quale effettua i propri consumi e paga i salari, che a loro volta servono ad incrementare le vendite e a coprire la produzione. In più, tutti i soggetti pagano le tasse e con ciò contribuiscono al benessere della collettività, visto che lo Stato garantisce la sicurezza e i servizi essenziali.
Si conclude, dunque, che anche i sostenitori dello Stato assistenziale debbano essere dei ferventi liberisti, pena il non funzionamento del sistema e la riduzione delle entrate fiscali necessarie per l'attività pubblica: l'erario sta bene quando stanno bene i conti in banca dei privati. O, almeno, dei privati imprenditori.
Verifichiamo all'atto pratico la validità di questi assunti.
Il comune di San Francisco, in California, tassa le imprese sulla base degli stipendi che pagano ai dipendenti e non, come normalmente accade, in proporzione al loro reddito. Il che risulta molto conveniente nel comparto dell'alta tecnologia, che tende ad impiegare uno scarso numero di lavoratori e che quindi trova nella metropoli californiana l'ambiente adatto per svilupparsi, anche portando alla nascita di giganti come Twitter.
Il caso riguarda appunto la società di Twitter che, in continua crescita, ha deciso di espandere la propria attività assumendo nuovi dipendenti. La crescita di un'impresa e la sua espansione, secondo lo schema descritto all'inizio, dovrebbe essere una vera manna per le casse comunali: aumentano le entrate fiscali, aumenta l'occupazione e, per questi motivi, il benessere degli azionisti si trasforma in benessere di tutta la collettività. Ma così rischia di non essere.
Twitter, per evitare i nuovi tributi che avrebbe dovuto versare per via delle previste assunzioni, decide di fondare una filiale fuori San Francisco, in un comune molto meno esoso della Silicon Valley. La notizia fa il giro della città ed anche altre imprese cominciano a prendere in considerazione il trasferimento, mentre l'amministrazione municipale comincia a temere la fuga dal proprio territorio di tutte le attività più redditizie (e, di conseguenza, il gettito fiscale che da esse deriva).
Si cerca allora di correre ai ripari con un accordo: la città di San Francisco esonererà Twitter dal pagamento delle nuove imposte dovute, mentre Twitter in contropartita non si trasferirà nella Silicon Valley, ma sposterà la propria sede in un quartiere cittadino in crisi per contribuire a revitalizzarlo. Tradotto nel linguaggio della teoria esposta all'inizio: l'arricchimento dei privati non porterà all'arricchimento dell'erario.
Il compromesso sembra aver soddisfatto Twitter, ma ha avuto l'effetto di suscitare molto clamore tra l'opinione pubblica progressista, scandalizzata dal regalo che l'amministrazione comunale sta facendo ad una delle più floride imprese del momento. Si dice che l'interesse particolare abbia ancora una volta travolto l'interesse generale e che, invece del bene comune, la città abbia deciso di fare il bene di un unico soggetto, per di più tutto fuorché indigente.
In un mondo in cui il radicamento dell'economia sul territorio si è annullato (siamo davanti ad un tipico esempio di delocalizzazione), però, le alternative che si presentavano ai politici di San Francisco erano ben poche: o ricercare la giustizia sociale (perdendo Twitter e il suo indotto) o convincere l'impresa a restare, ma a costo di favorire ancora una volta il più ricco a scapito di tutti.

Resta da capire se il dogma enunciato all'inizio abbia ancora validità o meno: è davvero un sistema redistributivo della ricchezza quello che, dopo aver foraggiato un'impresa convinto del benessere che essa avrebbe portato alla collettività, è costretto ad erogarle altre concessioni quando questa è ormai florida e dovrebbe finalmente contribuire al benessere di tutti?

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