In ques'estate caotica, il governo, così sbandato da far invidia all'ultimo di centrosinistra, ha già dovuto rimangiarsi quell'ombra di disegno di giustizia sociale che voleva essere il contributo di solidarietà da far pagare ai più ricchi perché contribuissero alla quadratura dei conti pubblici.
Si trattava di un aumento dell'aliquota marginale del 5% per la fascia di reddito tra i 90 e i 150 000 euro e del 10% sopra i 150 000. In parole povere, un contribuente che avesse dichiarato un reddito di 200 000 euro avrebbe pagato il 23% di IRPEF sui primi € 15 000 di reddito, il 27% sulla porzione di reddito tra €15 001 e € 28 000, il 38% su quella tra € 28 001 e € 55 000, il 41% su quella tra € 55 001 e € 75 000, il 43% su quella tra € 75 001 e € 90 000, il 48% (IRPEF più contributo) su quella tra € 91 000 e € 150 000 e, infine, il 53% su quella in eccedenza rispetto a € 150 000.
Sarebbe stata una misura in linea col principio di progressività del prelievo fiscale, costituzionalmente garantito, che prevede che le aliquote crescano con il crescere del reddito. Si comprende, infatti, che non è sufficiente una normale proporzionalità, in quanto ha un differente peso un singolo euro tolto a un povero e la stessa somma tolta ad un contribuente agiato: il primo difetta già dell'essenziale, il secondo, invece, dovrà rinunciare soltanto al superfluo.
Questo concetto, che gli economisti chiamano funzione di utilità, è comprensibile con un esempio: se il reddito necessario per la mera sopravvivenza è 95 ed esistono due contribuenti, uno che percepisce 100 e l'altro che percepisce 1000, un'eventuale aliquota unica del 10% farebbe precipitare il reddito del primo a 90 (quindi sotto il minimo vitale), mentre quello del secondo, anche se in termini assoluti più colpito (100 contro 10), scenderebbe a 900, senza provocare un sacrificio nemmeno lontanamente simile a quello del primo soggetto.
La proposta ha messo in agitazione gli interessati, ovvero coloro che guadagnango 7500 euro lordi al mese, che replicano inorriditi che loro non sono ricchi, ma benestanti (nota categoria distinta), anzi, ceto medio (i poveri sono per caso quelli che percepiscono meno di €5000?). E poi lettere sui giornali di poveri benestanti disperati che minacciano di andarsene dall'Italia, che denunciano come il governo punisca quelli che hanno sempre lavorato (altro che quei fanfaroni degli operai e dei precari...), modesti professionisti da 100 000 euro annui che denunciano l'evasione fiscale (che non si sa bene cosa c'entri: loro i soldi ce li hanno a prescindere dagli evasori) e tanti discorsi della serie che esiste chi è più ricco di me. In conclusione, il governo ha fatto marcia indietro e ora la misura è in forse.
Oltre alla proporzionalità e alla progressività, l'imposizione fiscale può anche essere caratterizzata da regressività e ciò avviene quando, col crescere del reddito, si riduce l'entità del tributo pagato. Ed è appunto regressiva di fatto l'imposta a cui il governo (col placet della Marcegaglia che su Repubblica ha dichiarato che i ricchi italiani pagano già troppe tasse per i suoi gusti...) si affida per risanare i conti: l'IVA.
Verifichiamo infatti gli effetti dell'IVA usando il concetto già visto di utilità. Ipotizzando che sia 100 la quantità di consumo necessaria per la mera sopravvivenza e del 20% l'aliquota IVA (uguale per tutti), il contribuente A che percepisce 110 e spende 100 (giusto per sopravvivere) pagherà 20 di imposta, cioè il 18% ca. del suo reddito; il contribuente B, invece, che gode di un reddito di 1000 e spende 800 (cioè molto di più, ma risparmiando anche molto di più), pagherà 160 di imposta, cioè soltanto il 16%!
Il ricco (pardon, benestante!) così potrà vivere meglio, risparmiare di più e pagare meno tasse del povero. E poco importa che i beni di prima necessità (pane, pasta, farina...) siano sottoposti ad un'IVA inferiore, perché questo "sconto" pesa allo stesso modo su agiati e miserabili, in barba a qualsiasi giustizia sociale.
Insomma, lo spostamento del carico fiscale dall'imposizione diretta a quella indiretta è sempre penalizzante per i ceti inferiori. Si aggiunga anche che esistono beni (ad esempio PC, automobili, telefoni) che il titolare di partita IVA (statisticamente in prevalenza una persona agiata) può scaricare in quanto strumentali per il suo lavoro, ma che poi può utilizzare anche per attività extralavorative. Al contrario, il lavoratore dipendente, non godendo di queste opportunità ed essendo solo consumatore finale, subirà gli effetti inflattivi di un aumento dell'IVA sommato ai consueti arrotondamenti dei commercianti che cercheranno in ogni modo di mantenere intatto il proprio margine di guadagno e, se possibile, incrementarlo.
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