domenica 27 marzo 2011

De Magistris contro tutti o tutti contro De Magistris?

Mai come negli ultimi tempi Luigi De Magistris è stato sotto i riflettori, in una radiografia mediatica per lui senza precedenti. Essenzialmente le accuse sono state incentrate su tre diverse questioni: il presunto flop delle sue indagini, il suo rinvio a giudizio e, da parte dei grillini, la sua candidatura a Napoli.
Gianluigi Nuzzi, giornalista di Libero e autore di successi editoriali delle edizioni Chiarelettere come Metastasi e Vaticano Spa, in un articolo scritto in forma di elenco puntato a proposito dell'indagine Toghe Lucane ad un certo punto ha domandato:
Archiviata un'altra inchiesta partita all'epoca di Luigi De Magistriis a Catanzaro: il gip chiude il fascicolo per una ventina di imputati su richiesta della stessa procura, tra questi magistrati di corso della Basilicata. Il Pm, originario di Vibo, ha chiesto di archiviare dopo aver ereditato gli atti da De Magistris. Chi pagherà?
Su Il Fatto Quotidiano è uscito, invece, un articolo su chi abbia pagato per via degli illeciti su cui De Magistris indagava nell'inchiesta Poseidone (quella per la quale Mastella si attivò personalmente e che provocò il trasferimento coatto del PM), cioè i contribuenti dell'intera Unione Europea. L'Ufficio Europeo Antifrode, l'organo dell'Unione deputato a garantire la trasparenza nell'impiego dei fondi comunitari e ad intervenire in caso di malversazioni per ottenere i dovuti risarcimenti, ha concluso la propria inchiesta, parallela a quella di Catanzaro, e ha accertato l'effettiva esistenza delle frodi oggetto delle indagini di De Magistris. Adesso arriverà in Italia il conto, i 57 milioni di euro di fondi per lo sviluppo intascati ingiustamente dalla Regione Calabria, denaro che sarebbe stato molto di più se non fosse scattata per tempo l'inchiesta della Procura.
Ma forse questo non basta per far capire a Nuzzi che forse non tutte le inchieste di De Magistris siano state un'inutile perdita di tempo e di denaro pubblico, per le quali qualcuno dovrebbe pagare di tasca propria.
A proposito di pagare di tasca propria, De Magistris è anche stato assolto a tempo di record, "perché il fatto non sussiste", nel fin troppo famoso processo a suo carico a Salerno. Anche qui qualcuno dovrà pagare, oppure questa volta finalmente si ammetterà che non tutti i processi debbano a tutti i costi finire con una condanna perché il PM e il GIP non siano dichiarati in malafede? All'epoca del rinvio a giudizio (per il caso che aveva decisamente del grottesco, come si può leggere nel link) si sollevò un gran polverone, anche interno al suo partito, condito di richieste di dimissioni dall'europarlamento. Si gridava all'ipocrisia e all'incoerenza, nonché di violazione del codice etico dell'IdV (ex articolo 5). Resta da vedere se verrà dato uguale risalto all'assoluzione di un politico che per una volta non ha gridato al complotto all'arrivo di un avviso di garanzia e non si è sottratto ai giudici...
Tra coloro che avevano cavalcato il processo e che l'avevano utilizzato per dichiarare l'equivalenza tra De Magistris e Berlusconi c'era anche Beppe Grillo, il quale ha mobilitato la formidabile macchina del suo blog per boicottare la candidatura dell'ex-PM a candidato sindaco di Napoli per il Centrosinistra. Il comico, infatti, sostiene che De Magistris abbia tradito il mandato elettorale ricevuto alle europee anche grazie ai voti dei grillini, rendendosi un politico come tutti gli altri (accusa gravissima in bocca a Grillo!), iscritto a un partito e quindi non più indipendente (mentre la rete grillina è totalmente libera, no?).
Considerato che anche Sonia Alfano ha dovuto subire attacchi del genere da parte del blogger, non è che Grillo ha paura di tutti gli astri che, all'interno della sua creatura a 5 stelle dall'evidente impostazione personale, rischiano di diventare così luminosi da oscurare il suo ruolo di guida carismatica?

giovedì 24 marzo 2011

Oscar Romero

L'intervento di oggi è il primo di carattere agiografico. Agiografico non solo perché parla di un uomo, Oscar Arnulfo Romero, per il quale è in corso un processo di canonizzazione e che è già stato riconosciuto come martire dalla Chiesa Anglicana. Sarà agiografico soprattutto perché la storia che narra, assolutamente reale, ha tutto l'aspetto delle antiche agiografie, dove la vita del santo segue un andamento didascalicamente ben definito e forse anche prevedibile: un'esistenza ordinaria in principio, un punto di svolta (la conversione), la vita rinnovata e, molto spesso, il martirio finale.
La storia comincia nel 1917, quando Oscar Romero nacque nello staterello centroamericano di El Salvador, da famiglia non illustre. A 25 anni Oscar fu ordinato sacerdote e intraprese una serie di viaggi in Europa e in America Latina, per infine tornare nel proprio paese e lì svolgere il proprio ministero. Era un tipico prete del suo paese, di orientamento vagamente conservatore e ben lungi dal lasciarsi influenzare dalle correnti di sinistra della teologia della liberazione.
La sua fama crebbe per via del suo impegno e, col sostegno della Chiesa tradizionalista, divenne prima vescovo (era il 1970) e poi, con grande delusione dei progressisti che supportavano un altro candidato, arcivescovo primate di El Salvador. Era il 23 febbraio del 1977 e il regime autoritario filoamericano, che all'epoca governava il paese col pugno di ferro e mediante il massiccio impiego degli squadroni della morte contro contadini e oppositori, riteneva di aver trovato in lui un valido alleato.
Come nelle più classiche agiografie, quando la vita mondana del protagonista raggiunge il proprio apice, quando sembra che si sia giunta la stabilità e che ogni cosa è al suo posto agli occhi del Secolo, ecco che c'è il punto di svolta, la Conversione. Quella di Oscar Romero avvenne il 12 marzo del 1977.
Il fronte di opposizione al regime comprendeva all'epoca molti sacerdoti, spinti dagli ideali evangelici di povertà e umiltà ad abbracciare la teologia della liberazione, alcuni di loro imbracciando le armi, altri predicando la resistenza e il riscatto sociale. Rutilio Grande, gesuita e amico dell'arcivescovo, faceva parte della schiera di questi predicatori e per questa ragione venne assassinato insieme a due contadini dagli squadroni della morte.
L'omicidio del gesuita ebbe l'effetto di far prendere a Romero una posizione forte contro il governo, che nel frattempo boicottò le indagini e lasciò impuniti gli assassini. Allora cominciò il suo impegno a favore dei poveri del suo paese, dei campesinos (contadini) privi di diritti e vittime delle ingiustizie sociali e delle bande armate dilaganti. Predicava contro gli omicidi politici, contro la pratica dei desaparecidos e le costanti violazioni dei diritti umani da parte dei paramilitari.
Il suo nuovo impegno, però, gli procurò ben presto l'ostilità del potere che immediatamente cominciò a fare di tutto per ottenere la sua destituzione. Dal Vaticano giunsero visite apostoliche per ispezionare ogni dettaglio della sua vita privata, la gerarchia cominciò a isolarlo e gli appelli a Paolo VI non migliorarono di molto la situazione. Alcuni vescovi salvadoregni, inoltre, lo accusarono di essere la causa della violenza per via del suo mancato sostegno al governo autoritario.
Mentre il regime diveniva sempre più violento, Romero resisteva: la pace, diceva, non è equilibrio tra forze contrapposte; la pace è frutto della giustizia. In un'omelia affermò: «È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo!».
L'impegno ostinato e il sempre maggiore isolamento lo esposero personalmente alle ire del Regime che non vedeva l'ora di liberarsi dello scomodo prelato. La parabola agiografica, discendente agli occhi del mondo, ascendente in un'altra prospettiva, si avvicinava così al suo termine, mentre le porte dei potenti si chiudevano davanti all'arcivescovo in cerca di aiuto per la propria gente.
Nell'agosto del 1979 Oscar Romerò si recò a Roma per cercare di portare la propria battaglia a conoscenza di papa Giovanni Paolo II, sperando in un suo aiuto, in un po' di conforto. Il Pontefice, invece, gli concesse udienza solo con mille difficoltà, trattandolo freddamente e dimostrando insensibilità davanti al triste elenco dei sacerdoti e dei contadini massacrati dagli squadroni della morte. Infine, ultima beffa, la persona che doveva essere il massimo pastore della Chiesa universale, colui che - nell'immagine evangelica - darebbe la vita per il proprio gregge, consigliò all'arcivescovo di non esporsi, di tornare nei ranghi e di sostenere e di collaborare col governo delle stragi: era il comunismo il nemico da combattere, non i suoi avversari!
Ancora più solo, Romero tornò in El Salvador e lì subì ancora intimidazioni e attacchi. A metà marzo del 1980 si disse certo del proprio omicidio, ma non per questo allarmato: se anche lo avessero ucciso, diceva, sarebbe sempre sopravvissuta la coscienza del popolo per gli orrori subiti. Un popolo, affermava, non lo si può uccidere.
Nonostante i sabotaggi e le minacce, il prelato continuò a lottare fino alla fine, incitando i poliziotti alla disubbidienza e i soldati all'insubordinazione, pregando per la solidarietà e l'unità della gente davanti alle atrocità subite. Nulla però si fermava e, anzi, la repressione diventava di giorno in giorno più accanita.
La storia, quindi, arrivò al suo epilogo il 24 marzo del 1980, quando durante la messa, nel momento culminante della consacrazione, Oscar Romero fu assassinato da sicari del governo. Al suo funerale, disertato dal Papa, i militari attaccarono la folla uccidendo quaranta persone e ferendone duecento.
Terminò così l'esistenza terrena di Oscar Romero, presto divenuto un'icona del popolo salvadoregno e della lotta contro le oppressioni. Senza alcun riconoscimento ufficiale da parte della Curia romana, la sua gente (Chiesa nel senso più genuino del termine, l'assemblea riunita nel nome di Dio) lo ha riconosciuto come santo e ritenuto degno di venerazione. Santo perché, come avveniva nei primi secoli del cristianesimo, della sua Salvezza non è possibile dubitare; santo perché, finché visse, si ricordò sempre che il suo ruolo era servire il Tempio, non i mercanti. Per questo ora è per molti San Romero d'America.

martedì 22 marzo 2011

Politica (schizofrenica) estera

Un manifesto di Gheddafi a Tripoli
La fotografia qui sopra era stata scattata a Tripoli qualche tempo fa ed è un monumento al doppiogiochismo dell'Italia di Berlusconi che, dopo aver firmato un trattato di amicizia con la Libia in cui si prometteva, in caso di conflitto, di non le basi per un eventuale attacco contro il paese africano, adesso non solo ha tradito quella clausola, ma ha perfino partecipato (anche se non dichiaratamente) alle operazioni belliche.
Il paese è pericolosamente in bilico. All'inizio della rivolta Berlusconi aveva liquidato con una battuta pietosa chi gli aveva chiesto di intervenire nella crisi (magari sfruttando il suo rapporto stretto con il dittatore): Non ho sentito Gheddafi sarà troppo occupato. Poi il Re ha cominciato a tentennare mentre la rivolta avanzava e il regime amico sembrava sul punto di crollare, così che subito si è affrettato di allacciare rapporti diplomatici con il governo provvisorio di Bengasi, pur mantenendo quelli con Tripoli.
Alla fine, dopo l'attacco, sono cominciate le comiche. La Russa, in un delirio militarista, ha cominciato a ciarlare di aerei pronti a partire per la Libia con scopi non meglio identificati, perché - a suo dire - sarebbe indispensabile partecipare. In seguito, quando gli aerei sono andati e tornati, il governo ha giurato e spergiurato che fossero semplici voli di ricognizione, venendo impietosamente smentito da fonti militari che invece parlano di guerra guerreggiata. Adesso Berlusconi si dice addolorato per Gheddafi, affermando che ciò che accade in Libia lo colpisce personalmente.
Una chiave di lettura di questa apparente follia forse la dà Frattini che chiede un posto a tavola per l'Italia nel dopo-Gheddafi, un modo come un altro per dire che non si vogliono perdere tutti i privilegi che si avevano col dittatore in carica (che erano molti, per via dell'amicizia italo-libica). Un modo come un altro per cercare di essere sempre dalla parte giusta...

mercoledì 16 marzo 2011

Palestina in rivolta, ma nessuno ne parla

Non conosco l'arabo, non ho fonti privilegiate per le notizie e non ho titoli per diffonderle. Nel silenzio assoluto dei media, però, invito a leggere queste nuove su ciò che accade nella Striscia di Gaza.
Dopo ciò che si è scoperto da Wikileaks sul modo di gestire le trattative di pace in Cisgiordania da parte di Fatah e dopo il rifiuto di Hamas di sanare la rottura tra i due lembi di terra palestinese, i cittadini sono scesi in piazza per pretendere unità nazionale da parte della politica. Hamas, quindi, ha risposto a manganellate.

Sempre costoso mi fu quel radicale...

La politica italiana non poteva non cogliere l'occasione ghiotta offerta dal disastro giapponese: mentre tutti erano distratti dal Sol Levante, ha colto l'occasione per fare l'ennesima porcata, porcata da più di 300 milioni di euro.
Le tre mozioni presentate dall'opposizione per chiedere l'election day, infatti, sono state tutte respinte da una risicatissima maggioranza dal margine di un voto. Decisivo è stato l'apporto del deputato radicale Beltrandi, oltre alle assenze di 10 deputati del Pd, 8 di Fli, 4 dell’Udc e 2 dell’Idv. 276 a 275 il risultato finale.
Beltrandi è un deputato del partito radicale, pannelliano, che era stato eletto nelle liste bloccate del Partito Democratico in base a un accordo stretto con Walter Veltroni perché ai candidati di Pannella e della Bonino fossero garantiti dei posti di sicura elezione in cambio del sostegno elettorale. Adesso, ringraziato Veltroni, Pannella e i suoi si sono messi a trattare con Berlusconi per ottenere, in cambio della fiducia alla Camera, ciò che maggiormente desiderano.
E cosa desiderano maggiormente Marco Pannella e il suo piccolo seguito? A quanto pare dalle trattative delle settimane scorse, desidera prima di tutto un'amnistia, poi l'eliminazione dal video di Santoro (per cui nutre un'antipatia viscerale) e infine una bella riforma della giustizia su base garantista, tipo quella di Alfano (leggi: sfascio del sistema penale). Desiderata che secondo i radicali, valgono proibabilmente molto più delle centinaia di milioni di soldi pubblici che spenderemo per organizzare una doppia consultazione elettorale nel giro di pochi giorni.
Pannella alla stregua di Razzi e Scilipoti?

martedì 8 marzo 2011

Riprendono i processi militari a Guantanamo

Il presidente degli Stati Uniti e premio Nobel per la pace Obama ha autorizzato la ripresa dei processi militari contro i detenuti del carcere speciale di Guantanamo. Così, dalla stagione della campagna elettorale quando promise un colpo di spugna sulle misure più irrispettose dei diritti umani dell'era Bush, ora è tempo di un'inversione di marcia radicale e del ritorno alla durezza della prima legislazione antiterrorismo.
Obama aveva ricevuto il Nobel perché appariva a tutti come una rivoluzione americana. A differenza del predecessore, era amatissimo dagli europei, non era il paladino dei WASP (white, anglo-saxon protestant, il gruppo americano tradizionale), non sembrava un crociato armato contro l'Islam e prometteva una politica sul terrorismo più attenta al rispetto dei diritti civili e delle convenzioni internazionali (fine dei rapimenti clandestini, fine dell'uso della tortura, chiusura del carcere di Guantanamo). Sotto tutti i punti di vista, il suo primo mandato non ha soddisfatto alcuna delle aspettative.
Su Guantanamo inizialmente si cercò di rispettare la promessa chiedendo ai paesi alleati di ospitare i detenuti della prigione militare, che sarebbe stata chiusa. Nessuno, però, si è voluto sobbarcare il peso di prigionieri tanto scomodi e tratti in arresto con procedure ai limiti (se non molto oltre) della legalità, così la patata bollente è rimasta nelle mani di Obama.
Era poi stata indetta una moratoria dei processi militari a carico dei 172 detenuti del carcere speciale, che però adesso, dopo due anni, la Casa Bianca ha sospeso. Le garanzie processuali degli accusati, quindi, non saranno rispettate, come non verrà garantita in nessun modo la legalità della detenzione, ma ci sarà solo il diritto alla motivazione della sua opportunità.
C'è da chiedersi adesso da questo punto di vista cosa sia cambiato di fatto dall'era Bush. La fine delle guerre di espansione della democrazia, del resto, era ormai prevedibile e fisiologica visto lo stato del bilancio federale americano. Il Nobel per la Pace, dunque, è stato davvero una scelta saggia da parte dell'accademia nazionale norvegese?

venerdì 4 marzo 2011

Abdullah di Arabia, le rivolte, le donne arabe e l'Occidente

Leggo su Repubblica che il monarca assoluto dell'Arabia Saudita, Abdullah, ha annunciato di voler concedere il diritto d'elettorato attivo (ovvero il diritto di voto) alle donne, come segno di inizio di un processo di democratizzazione del regno. Per rispetto nei confronti della tradizione, invece, non concederà loro l'elettorato passivo (ovvero il diritto di essere elette).
La ragione dell'annuncio, a quanto pare, è la proclamazione per l'undici marzo di una grande manifestazione di piazza contro l'assolutismo e per le libertà civili e politiche, avvenimento che in prospettiva, dopo le rovinose cadute di Ben Ali e di Mubarak e con la rivoluzione libica in corso, ha messo in grande agitazione la corte saudita. Il voto alle donne, per questa ragione, fa parte di un pacchetto (giudicato insufficiente dalle opposizioni) costituito da concessioni, stanziamenti economici e altre promesse.
Assistiamo ad una di quelle mosse che piacciono molto ai liberali occidentali, a cui la monarchia assoluta araba aveva già ammiccato nel 2005 con l'indizione delle prime elezioni amministrative della storia del paese. Adesso, con la (quasi) parità dei sessi in molti si convinceranno delle buone intenzioni del sovrano. Ma davvero il voto femminile alle amministrative è considerato una priorità dai sudditi di un regno privo persino di un parlamento? O la ragione dell'annuncio va cercata più nella politica estera che in quella interna?
I mass media ci commossero tutti nel 2001, quando i soldati occidentali bombardavano l'Afganistan, mettendo in fuga il nemico islamista e liberando le donne dalla schiavitù loro imposta. Ugualmente le femministe di casa nostra sono sempre state molto sensibili alla causa delle immigrate velate (il velo, per loro, non si porta mai per convinzione culturale, ma sempre per imposizione esterna), così che non hanno mai manifestato ostilità verso progetti di legge che vietassero d'imperio l'uso dei copricapi islamici.
Cosa c'è, quindi, di più esaltante per gli occidentali di un monarca assoluto che, dall'alto della propria saggezza, concede il voto alle donne rischiando di inimicarsi tutti i fondamentalisti islamici?
Perfino Mubarak e Ben Ali si sono attirati, prima di cadere, qualche nostra simpatia per il modo in cui avrebbero promosso i diritti delle donne nei propri regimi: lo avevano fatto con la forza e contro il popolo, ma lo avevano fatto, sconfiggendo gli estremisti islamici, l'oscuro Nemico che minaccia la nostra società libera. Adesso che in Arabia rovesciano il despota illuminato che ha concesso il voto femminile, cosa ne sarà delle povere donne lasciate in balia di spietati beduini musulmani? La conclusione del ragionamento sarà che re Abdullah deve rimanere in piedi per proteggerle.
L'Arabia Saudita non è un paese qualsiasi, ma da un lato è uno dei massimi alleati americani in Medio Oriente, dall'altro un leader nella produzione mondiale di petrolio: uno stato troppo importante perché si possa permettere che cada nel caos rivoluzionario. La monarchia assoluta, quindi, deve avere le carte in regola per resistere e la simpatia occidentale per i liberatori delle donne tornerebbe molto utile per questo fine.