mercoledì 29 giugno 2011

A sinistra: socialismo e anarchismo (I)

Socialismo e anarchismo sono accomunati dal nemico contro cui si scagliano, il liberismo. Per tutto il resto, invece, si collocano agli antipodi, nonostante si considerino entrambi di sinistra (cioè fautori delle istanze sociali) e tendano a mitizzare le stesse figure rivoluzionare (soprattutto dell'America Latina). Ciò appare evidente facendo un semplice confronto, che parte dal socialismo e dal suo tentativo di mediazione con il liberalismo, lo Stato sociale democratico.

Il socialismo considera il capitalismo opprimente perché esso garantisce al privato la libertà di migliorare la propria condizione economica a scapito degli altri, così che una società liberista finisce per creare ricchi e poveri e mette i secondi nelle mani dei primi in una condizione di sudditanza ed inferiorità insanabile. La parola libertà, hanno sempre argomentato i socialisti, è vuota per il proletario che non ha i mezzi per godere dei diritti che la legge gli riconosce: avere una casa, farsi una famiglia, far studiare i figli, aver accesso alla sanità, godere degli agi dovuti alla tecnologia e ogni altra cosa. L'uguaglianza davanti alla legge, sancita solennemente dalle costituzioni, resta unicamente formale.
Se il liberalismo poneva al centro del mondo l'individuo come una monade che in sè trova il principio dell'autorealizzazione, i collettivisti hanno rovesciato la prospettiva concentrandosi sulla dimensione sociale dell'uomo. Da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni significa rendere l'uomo mezzo e fine dell'attività collettiva, fuori dalla quale non è possibile vivere e raggiungere la felicità: chiunque vive nella società e si rifiuta di esserne ingranaggio è uno che sfrutta lo sforzo altrui senza essere utile al gruppo (è la figura del parassita, cara alla retorica sovietica), un egoista da espellere dal corpo sociale.
L'individuo, si teorizza, non ha nulla fuori dalla sfera comunitaria: dipende dagli altri in tutto e per tutto. Sono utopisti coloro che credono che possano esistere dei diritti congeniti, non dovuti al relazionarsi con gli altri e non correlati da doveri altrui, perché solo se tutti riconoscono una possibilità ad un singolo quel qualcuno può goderne senza essere un usurpatore o un ladro. Ogni diritto deve poter essere riconosciuto a tutti, altrimenti è solo un odioso privilegio: socialismo e liberalismo si collocano, dunque, agli antipodi.

Nella seconda metà del Novecento, le democrazie europee hanno cercato di mediare tra la libertà economica e le istanze sociali (cioè tra liberalismo e socialismo) creando imponenti apparati pubblici assistenziali (il welfare State), tentando la quadratura del cerchio: far star bene tutti lasciando contemporaneamente tutti liberi e indipendenti. Grazie al denaro, si sono potute garantire a tutti prestazioni minime che se non altro evitavano ai governi e alle opinioni pubbliche di porsi il problema di scegliere se abbracciare la causa dell'individuo singolo (il liberismo assoluto) o se abbracciare la causa della società nel suo complesso (il collettivismo).
La democrazia ha prodotto la sintesi tra individuo e gruppo sociale, il concetto di persona, cioè il singolo nella sua condizione effettiva, immerso in un tessuto di relazioni. L'individuo si trova un po' meno libero da (obblighi, limitazioni e imposizioni pubbliche), ma, in quanto persona, notevolmente più libero di (realizzare le proprie aspirazioni, trovare riscatto sociale, vivere nel modo preferito), grazie al principio della solidarietà collettiva. L'estremo prodotto di questa sintesi è stata la libertà partecipativa tanto apprezzata durante la Contestazione.
Alla persona sono riconosciuti dei diritti congeniti, ma parallelamente si riconosce la necessità dell'aiuto altrui per la piena realizzazione individuale. L'inquadramento obbligatorio del singolo nel gruppo, dunque, è lasciato più blando che nella visione collettivista, ma rafforzato rispetto alla concezione liberale, mentre è concessa al singolo la piena libertà di crearsi legami ulteriori (con il conseguente maggiore scambio tra libertà e opportunità).

Alla seconda parte

domenica 26 giugno 2011

Trinus et Unus: Cricca, P3 e P4. Dei poteri occulti

Vi ricordate la storia di Bertolaso e del massaggio con preservativo, degli appalti a La Maddalena, degli imprenditori che ridevano durante il terremoto in Abruzzo e del grumo di clientele intorno alla Protezione Civile? Quella era la Cricca. E vi ricordate la rete di Denis Verdini, con dentro banche, imprese, faccendieri e imprenditori, Silvio "Cesare" Berlusconi e la rete circostante? Quella era la P3. Oggi è la rete di Bisignani ad essere scoperta, con dentro parte del gotha della finanza italiana, oltre che faccendieri, politici e consulenti vari, la P4.
Ciò che salta fuori ad ogni inchiesta è una rete di poteri occulti, comitati d'affari e lobbies in grado di inquinare il corretto funzionamento della politica democratica. Ma ancora più preoccupante è notare delle continuità tra i fenomeni scoperti, così che ci si accorge del salto di qualità nei nomi che sono saltati fuori nelle tre fasi, sia tra gli imprenditori che tra i politici: da un Bertolaso di basso livello nella Cricca si è passati ai più influenti Verdini e Dell'Utri della P3, per poi giungere all'apogeo con Gianni Letta, il potentissimo sottosegretario di Berlusconi, di cui già si vociferava la nomina a senatore a vita, se non alla Presidenza della Repubblica...
Continuità che sarebbe dimostrata da ciò che afferma De Magistris: la P3 fu attiva nel sabotaggio delle sue inchieste di Catanzaro e la P4 era immischiata nei reati di cui il PM si occupava prima del trasferimento. La capacità di influenzare e di creare agganci avrebbe permesso a questa ragnatela invisibile di manipolare il corso della giustizia in modo da garantirsi l'impunità e l'adeguata macchina del fango ha fatto ripetere a tutti i partiti, a reti unificati, che le inchieste della procura calabrese sarebbero stati fiaschi (l'UE non sembra pensarla così) e che sarebbero state tutte fatte a pezzi per la loro inconsistenza (e non perché sabotate dai successori di De Magistris).
Vale, ovviamente, la presunzione di innocenza e si concede agli accusati il beneficio del dubbio, ma se fosse vero tutto ciò che appare, se fosse dimostrata l'esistenza di questa rete di potere capace di coinvolgere politica, associazioni mafiose, grandi banche e grande imprenditoria, oltre che ambienti governativi del Ministero della Giustizia e Vaticano, allora sarebbe da mettere in dubbio la genuinità stessa della democrazia italiana e l'effettivo peso della volontà popolare nelle scelte degli organi rappresentativi.

venerdì 17 giugno 2011

Referendum sul Porcellum, rilievi critici

L'incredibile vittoria referendaria ha spinto a lanciare una nuova iniziativa per una consultazione d'abrogazione (modificativa) del Porcellum, l'immonda legge elettorale italiana. Molte sono le firme celebri che hanno dato il proprio sostegno al comitato promotore e le proposte di quesito sono disponibili in rete.
I due aspetti critici del Porcellum sono l'assenza di preferenze e il diabolico sistema che attribuisce il premio di maggioranza al Senato su base elettorale: ben venga, dunque, un cambiamento radicale.
Stringendo il campo solo sui due quesiti di modificazione della legge elettorale della Camera, il DPR 361 del 1957 con successive modifiche, emergono invece alcuni aspetti di criticità che smorzano l'entusiasmo.
Il primo quesito, prima di tutto, non fa che eliminare la possibilità di creare coalizioni elettorali e togliere il premio di maggioranza. Crea dunque un sistema proporzionale puro con sbarramento al 4%, che può piacere o non piacere, ma che comunque non incide sugli aspetti indecenti dell'attuale legge elettorale.
Più interessante è il secondo quesito che, secondo i promotori, permetterebbe di reintrodurre la possibilità per l'elettore di esprimere preferenze. Ma vediamo in dettaglio come lo vorrebbe fare.
Il quesito propone di abrogare queste parti delle disposizioni di legge:
Art. 18 bis comma 3 limitatamente alle parole "presentati secondo un determinato ordine"
Art. 19 comma 1 limitatamente alle parole "nella stessa"
Art. 58 comma 2 limitatamente alle parole "tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, nel rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta. Sono vietati altri segni o indicazioni"
Art. 84 comma 1 limitatamente alle parole "secondo l'ordine di presentazione"
Art. 85
Art. 86 comma 1 limitatamente alle parole "nella lista" Art. 86 comma 1 limitatamente alle parole "nell'ordine progressivo di lista"
Ecco, quindi, i risultati. Tra parentesi quadre le parti abrogate
Art. 18 comma tre
Ogni lista, all'atto della presentazione, è composta da un elenco di candidati,[presentati secondo un determinato ordine]. La lista è formata complessivamente da un numero di candidati non inferiore a un terzo e non superiore ai seggi assegnati alla circoscrizione
Dunque le liste saranno semplicemente elenchi di candidati, senza un ordine preciso.
Art. 19
Nessun candidato può essere incluso in liste con diversi contrassegni [nella stessa] o in altra circoscrizione, pena la nullità dell'elezione. A pena di nullità dell'elezione, nessun candidato può accettare la candidatura contestuale alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica
Sfruttando la ridondanza del testo, si impedisce quindi a un candidato di candidarsi sia in più liste che in più circoscrizioni. Può essere condivisibile, ma non c'entra con le preferenze.
Art. 58 comma 2

L'elettore, senza che sia avvicinato da alcuno, esprime il voto [tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta. Sono vietati altri segni o indicazioni]. L'elettore deve poi piegare la scheda secondo le linee in essa tracciate e chiuderla inumidendone la parte gommata. Di queste operazioni il presidente gli dà preventive istruzioni, astenendosi da ogni esemplificazione e indicando in ogni caso le modalità e il numero dei voti di preferenza che l'elettore ha facoltà di esprimere
Dunque l'elettore esprime il voto in isolamento, si presume su una scheda, ma non si sa esattamente nè come lo farà nè quando la scheda sarà considerata nulla, visto che viene abrogata la parte della legge che indica quando i voti sono da considerare invalidi: si potrà accompagnare la crocetta sul simbolo di lista con lettere d'amore, una serie di no accanto ai simboli delle liste che non si vogliono votare, decorazioni grafiche, dichiarazioni estemporanee ispirate al buio della cabina, barzellette sui carabinieri, fantasie erotiche e tanto altro ancora, perché tanto le schede non saranno annullabili in questi casi!
Purtroppo l'unica cosa che non si potrà fare sarà proprio esprimere preferenze.
Art. 84 comma 1
Il presidente dell'Ufficio centrale circoscrizionale, ricevute da parte dell'Ufficiocentrale nazionale le comunicazioni di cui all'articolo 83, comma 6, proclama eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, [secondo l'ordine di presentazione].
Tradotto, verranno proclamati eletti i candidati compresi nella medesima lista, ma non si comprende esattamente in che ordine: è il presidente dell'ufficio a scegliere chi sì e chi no a seconda delle proprie preferenze? Oppure si tirano a sorte i nomi?
Art. 85
[Il deputato eletto in più circoscrizioni deve dichiarare alla Presidenza dellaCamera dei deputati, entro otto giorni dalla data dell'ultima proclamazione, quale circoscrizione prescelga. Mancando l'opzione, si procede al sorteggio]
Chiaramente se non ci si potrà più candidare in più circoscrizioni questo articolo diventa inutile.
Art. 86 comma 1
Il seggio che rimanga vacante per qualsiasi causa, anche sopravvenuta, èattribuito, nell'àmbito della medesima circoscrizione, al candidato che [nella lista] segue immediatamente l'ultimo degli eletti [nell'ordine progressivo di lista].
Così modificato, l'articolo andrebbe benissimo se fossero possibili preferenze. Purtroppo, senza la possibilità di esprimere preferenze, non è possibile stabilire chi sia il candidato che segue l'ultimo degli eletti.

In sintesi, il secondo quesito è perfettamente inutile e non servirà ad ammazzare il Porcellum. E' possibile anche pensare che non sarà accettato perché creerebbe nel sistema delle lacune tali da impedire una corretta consultazione elettorale.

domenica 12 giugno 2011

Un diritto-dovere

Articolo 48 della Costituzione della Repubblica Italiana, parte I - diritti e doveri dei cittadini, titolo IV - rapporti politici.
Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
La legge stabilisce requisiti e modalità per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all'estero e ne assicura l'effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l'elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge.
Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.
Se poi l'esercizio di questo diritto costa alla comunità centinaia di milioni di euro, è ancora più doveroso recarsi alle urne.

mercoledì 8 giugno 2011

Il fuoco di paglia del 15 maggio spagnolo

Gli indignados spagnoli hanno fatto la loro parte e ora scompaiono dalle cronache, in attesa di farlo anche dalle piazze. Si è votato alle elezioni locali, tutte le principali amministrazioni di centrosinistra sono passate al centrodestra e l'alternanza del bipolarismo ha vinto ancora, senza produrre nessun cambiamento reale. Almeno per ora.
Paradossalmente, ha vinto quella parte politica (la destra) che è tradizionalmente più vicina ai valori del liberismo e che sostiene per sua ideologia l'allentamento delle regole e dei vincoli per dare libertà al mercato. Cioè hanno vinto i primi sostenitori del sistema che ha causato la crisi in atto.
Il movimento 15 Maggio era nato raccogliendo istanze eterogenee, non come protesta contro vere e proprie scelte politiche o con una critica lucida al modo di concepire l'economia, ma come lamentela per la crisi economica e i tagli ai quali il governo è costretto dalle dissestate casse statali. Una presa di posizione, dunque, contro un risultato, non contro le sue cause.
I 15-M non avevano una base teorica alle spalle che permettesse loro di formulare una proposta politica e ciò ha loro precluso la partecipazione alla formazione della volontà popolare col metodo democratico. Una vampata che, incapace di produrre idee rappresentabili, è destinata a disperdersi dopo lo sfogo iniziale: nessun candidato o politico può impegnarsi a soddisfare i bisogni della gente se essi non si traducono in proposte chiare.
Non è da tutti produrre sistemi teorici, ma qualcuno che li formuli è indispensabile per cambiare il mondo. Il '68 non avrebbe avuto senso senza la Scuola di Francoforte e il 1789 non sarebbe stato possibile senza gli illuministi: ciò che trasforma un tumulto in una rivoluzione e in una svolta è un programma politico. La rivolta di piazza, semmai, è l'opportunità per realizzare questo progetto, ma non può in alcun modo precederlo o farne a meno, pena il fallimento.
Ora gli indignados sembrano destinati all'oblio se la rabbia non condurrà alla riflessione. Occorre allora che siano gli intellettuali a prendere in mano la questione, partendo dalla ragionevole considerazione che il fallimento di un sistema è forse il segno della sua inadeguatezza e della necessità di una riforma profonda, se non proprio della sua sostituzione con qualcosa di meglio e di nuovo.

martedì 7 giugno 2011

La crescita prima di tutto su Corriere Economia

Sul Corriere Economia di ieri, a pagina 4, è apparso un intervento di Gian Filippo Cuneo, consulente manageriale. Il pezzo contiene una ricetta per la ripresa, formulata in risposta alla relazione di Draghi, ed è molto interessante farne l'analisi per comprendere cosa sia il PIL per alcuni osservatori economici.
La tesi è che sarebbe il settore pubblico una delle principali cause della stagnazione italiana: esso non è nel mercato, la sua produttività non aumenta e gli stipendi reali degli statali crescerebbero. Il settore privato, al contrario, è obbligato (a pena di fallimento) ad incrementare la produttività del 2% l'anno e ciò garantisce la crescita del PIL. L'impresa, continua, se un anno produce 100 e ha 100 dipendenti, l'anno successivo ne eliminerà due dall'organico e ne avrà 98, salvando la produttività. Evidentemente Cuneo non nota il meccanismo perverso di una crescita costruita sulla pelle dei lavoratori licenziati. Ma che importa? Si cresce per crescere, non per far stare tutti meglio!
Non si può che biasimare il pubblico che non fa periodicamente tagli al personale: «il concetto che gli occupati ed il loro costo debba e possa diminuire ogni anno non sfiora alcun politico o amministratore. C'è l'ipocrisia di definire ogni attività come un servizio al cittadino, indipendentemente dal fatto che il cittadino la richieda o dal suo costo. Essendo inoltre il settore pubblico inefficiente; e non essendo mai stato sottoposto alle cure manageriali tipiche di un'azienda, il potenziale di riduzione dei costi è molto superiore al 2% l'anno». Poi magari il nostro opinionista oggi sta borbottando perché le strade non sono sicure per mancanza di agenti o perché deve attendere mesi in lista d'attesa per un esame medico... ma forse lui si paga la vigilanza privata e va agli ospedali pubblici, a differenza di quei barboni dei lavoratori da licenziare al ritmo del 2% l'anno...
Continua quindi la brillante analisi di Cuneo: «C'è una bella differenza fra fare una centrale elettrica rispetto a occupare dei forestali per evitare che s'incendino i boschi». Anzi, sarebbe proprio da lasciare i boschi bruciare, così che poi potranno intervenire i palazzinari a produrre un po' di PIL cementificando il territorio. Ancora una volta sembra che agli occhi dell'opinionista la crescita non sia uno dei tanti strumenti per rendere la vita dell'uomo migliore, ma che sia il fine per il quale sacrificare ogni cosa: l'uomo, il benessere e l'ambiente.
Si passa dunque al cosa fare pratico. Occorre investire per aumentare la produttività, e fin qui l'idea è condivisibile, ma poi afferma che per rendere efficienti gli uffici si dovrebbe «creare competitività fra unità che fanno le stesse cose». Cioè, abbiamo una ASL da 100 dipendenti. Applicando la ricetta di Cuneo, dobbiamo eliminarne 2 e quindi ne restano 98. A questo punto dobbiamo creare una seconda ASL, con apparato burocratico, dirigenti e tutto il resto, per metterla in concorrenza con la prima. Questo sì che è un modo per risparmiare risorse, no?
Occorre annullare centinaia di migliaia di posti di lavoro, afferma il commentatore, in modo da trasferirli implicitamente al settore privato. Esattamente che cosa si deve ancora privatizzare? Gli ospedali? Le scuole? La polizia? L'INPS? Gli asili comunali? Perché i cittadini meno abbienti dovrebbero rinunciare a servizi essenziali per far ripartire una crescita che non avrà nessuna ripercussione sul loro benessere?
Alla fine la strategia di bilancio: non una ristrutturazione ragionata, ma tagli lineari. Proprio così, tagli lineari: via servizi e sprechi, eccellenze e stipendifici, ricerca e baronie. Perché, a suo dire, sono i tagli indiscriminati quelli che preparano l'ambiente (cioè seminano il panico) ad accettare qualsiasi ristrutturazione dopo, anche se da macelleria (avete presente Mirafiori?).
Alla fine, paradossalmente, si evoca la figura di Enrico Bondi, il commissario straordinario nominato per la Parmalat, il gruppo privato entrato in crisi per via del modo spregiudicato col quale il suo imprenditore gestiva gli affari, accumulando ingenti capitali privati e danneggiando così la collettività. Che forse anche il privato non sia la soluzione a tutti i mali del mondo?
A cosa servirà mai produrre qualche punto di PIL in più se poi complessivamente si sta peggio? E, ancora di più, torna utile aumentare la produttività delle imprese se poi, una volta creato uno stuolo di disoccupati e di poveri, non esisteranno consumatori che potranno acquistare i loro beni e servizi?

Voluit igitur aliquid quod non habebat nec tunc velle debebat

Il titolo è una citazione del De Casu Diaboli (ovvero, in latino, La Caduta del Diavolo), dialogo di Anselmo d’Aosta: volle [Lucifero] quindi qualcosa che non aveva, né allora doveva volere, cioè volle essere pari a Dio. Questa colpa quindi, come il più celebre peccato originale di Adamo, coincide con l’ambizione dell'essere pari a Dio: solius enim Dei esse debet sic voluntate propria velle aliquid, ut superiorem non sequatur voluntatem, deve essere solo proprio di Dio il volere qualcosa di propria volontà, senza seguire una volontà superiore.
Queste considerazioni del Doctor Magnificus, come è chiamato Anselmo, meritano delle riflessioni aggiuntive, per non essere fonte del solito fin troppo banale fraintendimento. A prima vista, infatti, questo periodo sembrerebbe essere un inno all’asservimento e alla subordinazione del pensiero e dell’agire umano ad una volontà superiore; una volontà che ordina e dispone, senza concedere possibilità di appello, in modo totalitario e totalizzante.
Invece la ribellione contro questa volontà (il peccato di Lucifero, nel nostro racconto) apparirebbe un atto di umanità, un gesto di libertà, perché solo nel superamento della sudditanza e nel raggiungimento dello stato "divino" l’uomo acquisterebbe tutta la propria dignità, prima compressa dalla sottomissione. In una visione molto miltoniana, il diavolo e Adamo si assocerebbero in un moto di rivolta contro un ordine totalitario, oppressivo e intollerante nei confronti delle scelte diverse, cercando di imporre se stessi come artefici del proprio destino.
Il discepolo del dialogo, il quale svolge il ruolo di controparte del maestro che esprime le idee dell'autore, è tuttavia meno superficiale nella lettura e ci mette poco ad obiettare che qualcosa non quadra nel desiderio di raggiungere Dio: si Deus non potest cogitari nisi ita solus ut nihil illi simile cogitari possit, quomodo potuit diabolus velle quod non potuit cogitare? Se Dio non può essere pensato se non come unico, tale che niente di simile a Lui possa essere pensato, come ha potuto il diavolo voler [essere] ciò che non poteva nemmeno pensare?
Obiezione apparentemente formalistica, questa, ma che dà l’opportunità al maestro di rispondere spiegando che il diavolo (e, in conseguenza del parallelo portato avanti nel dialogo, anche l’uomo) non nutriva il desiderio di rendersi esattamente tale a Dio, dato che lui stesso sapeva bene che non sarebbe stato possibile, ma semplicemente quello di rivestire un ruolo e un grado quasi simili. Colpa certamente non minore.
Ma colpa di che genere? Di sicuro non è colpevole il tentativo di migliorare se stessi al fine di raggiungere un livello maggiore di perfezione, poiché questo tipo di agire non può che essere positivo e ricco di conseguenze benefiche per sè e per gli altri. E il discorso non si riduce certamente al solo orgoglio, per cui il fallo starebbe nel voler essere ciò che non si può diventare, ad onta dei limiti e dell’ordine del mondo.
Forse ha più senso vedere il tentativo di rendersi pari a Dio non in relazione al rapporto tra la creatura e il Creatore che si vuole spodestare, ma a quello tra creatura e creatura: il non cercare di farsi grandi per essere grandi, ma al fine di essere superiori ai propri simili, per essere divini ai loro occhi ed essere in grado di imporre loro il proprio potere e la propria volontà . Ut superiorem non sequatur voluntatem, per non dover seguire una volontà superiore, cioè essere i padroni di sè e degli altri.
Non quindi una ricerca della libertà, ma un tentativo di rompere ogni limite per rendere se stessi gli appositori dei limiti, trasformando gli altri da simili ad asserviti.

domenica 5 giugno 2011

Dubbi (confutabili) sul referendum contro l'atomo

Si sta diffondendo il panico circa la consultazione sull'atomo di domenica prossima. Si teme che l'abrogazione dei commi 1 e 8 dell'art. 5 della legge 75/2011, ovvero quelli sui quali verte il quesito referendario, potrebbe ridar vita alle disposizioni previgenti e quindi annullare la sospensione del nucleare facendo ripartire il programma del governo.
Il testo di ciò per cui si vota è disponibile in rete e la lettura accorta dell'art. 5, anche se solo sommaria, ci permette di disperdere il fumo del dubbio sulla bontà del referendum.
Intanto è facile notare come sono i commi dal 2 al 7 quelli che contengono l'abrogazione delle vecchie disposizioni sul nucleare e dunque non è su quella che verte il voto. Ci si occupa, al contrario, degli unici commi che non abrogano un bel nulla, ma che spiegano le ragioni dell'intervento legislativo ed anticipano l'azione futura dell'esecutivo. Si tratta evidentemente di norme programmatiche, semplici intenzioni del legislatore per l'avvenire.
Comma 1 - Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare
Il primo comma che si abroga è quello che fa venire le maggiori perplessità: la legge afferma che non si procede col programma nucleare e noi abroghiamo questo passo della legge? Apparentemente il voto non ha logica e ha di conseguenza fatto gridare al suicidio.
Non dobbiamo però dimenticare che l'abrogazione esplicita delle disposizioni sul nucleare è già presente negli altri commi e che quindi l'abrogazione implicita derivante dall'attuazione di questa parte della legge non è necessaria per dire addio all'atomo. Inoltre non si deve dimenticare che non ha alcuna importanza ciò che il referendum toglie, ma conta solo ciò che risulterà dalla soppressione: cancellato il comma 1 rimarrà proprio una legge che elimina le disposizioni sul nucleare delle leggi precedenti.
L'insidia di questo comma è rappresentata dall'inizio: si subordina l'interruzione del programma all'acquisizione di nuove evidenze scientifiche. Dunque, implicitamente, una volta ottenute tali evidenze sarebbe possibile ripartire col nucleare a spron battuto. E' questa la ragione per cui se ne chiede l'eliminazione.

Comma 8 - Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari, adotta la Strategia energetica nazionale, che individua le priorità e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitività del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l'incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilità ambientale nella produzione e negli usi dell'energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali. Nella definizione della Strategia, il Consiglio dei Ministri tiene conto delle valutazioni effettuate a livello di Unione europea e a livello internazionale sulla sicurezza delle tecnologie disponibili, degli obiettivi fissati a livello di Unione europea e a livello internazionale in materia di cambiamenti climatici, delle indicazioni dell'Unione europea e degli organismi internazionali in materia di scenari energetici e ambientali.
La pericolosità dell'abrogazione di questo papiro, invece, non è ben chiara. Si dice che eliminerebbe tutta la politica energetica del governo con l'eccezione del nucleare, ma, come abbiamo visto, il nucleare sono altri commi ad eliminarlo e l'approvvigionamento energetico del paese dovrebbe essere una materia troppo importante per essere relegata ad un unico comma di un decreto-minestrone che tratta di tutto e di più.
Il vero senso della richiesta di abrogazione è appunto la carta bianca che questo comma, lungo, ma ugualmente fumoso, lascia all'esecutivo per la definizione della nostra futura politica energetica. Con il referendum si vuole togliere questa attribuzione totale di fiducia al governo nuclearista, dando un segnale politico forte per la necessità di un cambiamento di rotta sul tema.

Che destino per il nasone? Le fontanelle pubbliche di Roma

Il gruppo di destra Movimento per Roma, che sostiene la giunta Alemanno e che si colloca nella coalizione berlusconiana, ha tappezzato i muri della Capitale di manifesti che invitano a votare ai referendum di domenica prossima sull'acqua pubblica. Lo slogan della campagna è giù le mani dal nasone.
Il nasone è la fontanella pubblica, così chiamata per via della sua forma, una specie di alta bitta con in mezzo un lungo becco ricurvo (simile, appunto, a un lungo naso), oggetto facilissimo da incontrare passeggiando per le strade romane e che svolge una funzione utilissima non solo per i turisti, ma anche per i residenti che possono sempre contare su una fonte d'acqua gratuita e sempre disponibile.
Garantire la rete di fontanelle, dopo la privatizzazione, vorrà dire o costringere il nuovo gestore ad accollarsele col contratto di servizio o per il pubblico giungere al risultato aberrante di dover vendere l'acqua alle imprese private per dopo riacquistarla a prezzo maggiorato, ovviamente sfruttando risorse della fiscalità generale che dalle tasche dei cittadini andranno a finire a quelle degli azionisti della società di gestione. Nel primo caso le imprese cercheranno di fare tutto il possibile per limitare il servizio, in quanto fisiologicamente gratuito e in perdita, nel secondo i comuni dovranno affrontare spese aggiuntive, con il conseguente incentivo alla riduzione del servizio. In entrambi i casi, che destino per le fontanelle pubbliche?
Comunque una obiezione al nasone romano sarebbe molto facile: come si vede dalla foto, gli manca il rubinetto e dunque il getto d'acqua è continuo, giorno e notte, quando serve e quando non serve. La privatizzazione non dovrebbe fermare questo oggettivo spreco? Il privato erede della gestione delle fontanelle non dovrebbe intervenire sostituendo le fontanelle attuali con altre meno sprecone?
In realtà non è così semplice. Il privato potrebbe non essere incentivato ad affrontare le enormi spese di sostituzione (parliamo di migliaia di interventi su tutto il territorio comunale), dal momento che da un lato potrebbe considerare più semplice interrompere l'erogazione su quella rete (gettando così via il bambino con l'acqua, usando questa espressione decisamente calzante) e dall'altro, nel caso in cui questo servizio dovesse essere garantito dal contratto tra il gestore e il comune, al posto dell'immane investimento potrebbe essere preferibile lasciare tutto com'è e caricare sulle bollette dei privati la perdita. In breve, nell'ipotesi migliore non cambierebbe nulla.
L'unica soluzione a questo fallimento del mercato (espressione che indica il caso in cui le leggi della concorrenza non portano spontaneamente alla soluzione più auspicabile) sarebbe sempre l'intervento pubblico: il Comune deve prendere l'iniziativa e ordinare la sostituzione delle fontanelle. Ma se non lo fa ora che ne avrebbe diretto interesse, difficilmente deciderà di farlo quando tutta la faccenda sarà nelle mani di qualche imprenditore privato, magari straniero.
Va sempre ricordato che l'impresa per sua natura non tutela interessi collettivi, ma ha una funzione eminentemente economica. Anche se si constata il fallimento del pubblico nella tutela degli interessi collettivi, dunque, non si può cercare nel privato il tappabuchi, perché quello non è il suo ruolo e non si può pretendere che lo sia, se si vuole ancora garantire la libertà economica riconosciuta dalla Costituzione.
La soluzione dei problemi pubblici va ricercata negli strumenti pubblici, anche mediante uno sforzo di tutta la cittadinanza: l'attesa messianica del privato che risolve tutti i problemi, dell'uomo della Provvidenza che metterà ogni cosa in ordine, è giusto l'antitesi dello Stato assistenziale e non può che portare a grosse delusioni.

giovedì 2 giugno 2011

Alla fine si vota

Alla fine il gioco delle tre carte non è riuscito e il referendum sul nucleare italiano del 12 giugno avverrà come programmato. Così ha deciso la Corte di Cassazione, non potendo che constatare l'ennesimo tentativo di intortamento da parte di questo parlamento, il cui unico (e costoso) effetto sarà la necessità di ristampare tutte le schede per aggiornarle alla nuova disposizione da eliminare. Una buona notizia che fa ben sperare anche per i due quesiti sull'acqua pubblica, i quali avrebbero corso un rischio maggiore di non raggiungere il quorum se privati dell'afflusso degli elettori interessati prevalentemente dalla consultazione sull'atomo, anche per via dell'effetto-Fukushima.
Anche il quarto quesito, sul legittimo impedimento, appare meno in bilico: gli elettori che si recheranno alle urne molto difficilmente faranno esplicita richiesta di non ricevere quella scheda, così che i destini di tutte le consultazioni saranno legati tra loro. Se non dovesse mancare il quorum, Berlusconi perderebbe anche i restanti brandelli dello scudo che la Consulta gli aveva già in parte sfondato.
La sconfitta referendaria sarebbe quindi sia politica (su acqua e nucleare) che personale (sull'impedimento) e potrebbe dare un serio colpo alla traballante maggioranza che per tirare a campare è costretta a creare sottosegretariati per ogni voltagabbana che recluta. La Lega, intanto, dà segni di sbandamento e già Bossi ha aperto sul referendum sull'acqua pubblica, forse non sinceramente e solo per ragioni di campagna elettorale. Secondo alcuni rumors, inoltre, la base leghista si sarebbe ormai disaffezionata a Berlusconi, ormai visto come leader perdente e infedele, e sarebbe pronta ad andare al voto. Ciò dovrebbe avvicinare il quorum, anche se l'elettorato leghista è quello che a metà giugno preferisce andare al mare piuttosto che al seggio...
Il raggiungimento del quorum è di per sè una battaglia politica: è da più di quindi anni che nessuna consultazione referendaria lo raggiunge e l'istituto sembra destinato all'obsolescenza. Non è difficile capirne il motivo, del resto, tenendo presente che i contrari al quesito di turno è da anni che non fanno campagna per il no, ma per il non-voto, in modo da aggiungere la propria astensione politica a quella occasionale, a quella dei disinteressati e a quella degli apolitici: il referendum, ormai, lo vanno a votare solo i favorevoli.
Si riuscirà il 12 e 13 giugno a ribaltare questa tendenza? L'acqua come bene comune e lo spettro del nucleare avrebbero tutte le carte in regola per trascinare gli italiani a votare, ma dall'altra parte militano il silenzio televisivo e la campagna per l'astensione del centrodestra, spaventato più che altro dal quarto quesito, quello sul legittimo impedimento.