mercoledì 23 febbraio 2011

Esegesi elementare della Costituzione sulla libertà religiosa

Se l'Italia non è uno Stato confessionale come molti auspicherebbero, non è neanche detto che costituzionalmente debba rcorrispondere al modello teorizzato dalla maggior parte dei laicisti di casa nostra. Nelle analisi degli anticlericali è facile infatti trovare riferimenti alle legislazioni di paesi stranieri come la Francia o la Svezia, ma raramente rinvii alle molto più pregnanti norme costituzionali italiane sulla libertà religiosa.
Intanto occorre fare pulizia nel linguaggio. La parola laico, riferita a uno Stato, indica semplicemente il contrario di "confessionale", quindi la laicità dello Stato è il mancato riconoscimento di una religione come culto ufficiale della nazione. In questo senso, l'Italia è uno Stato laico.
La parola laicista, invece, si riferisce ad una persona che politicamente ritiene che uno Stato debba essere laico. Il laicismo, quindi, è il movimento d'opinione dei laicisti. Chi scrive, un credente cattolico praticante, è anche un laicista, perché non desidera vivere in un paese confessionale.
Per ateismo di Stato, infine, si intende il rifiuto da parte di uno Stato di tutte le manifestazioni esterne dei culti religiosi: cerimonie pubbliche, propaganda delle fedi e creazione di istituzioni confessionali. La religione è ridotta ad un fatto puramente mentale del fedele (sulla mente lo Stato non ha potere).
E' chiaro, quindi, che tra gli estremi del confessionalismo e dell'ateismo ci sia una vasta gamma di laicità possibili. La Costituzione italiana ne ha scelto una e l'ha codificata negli articoli 7, 8, 19 e 20, come parte dei principi fondanti del nostro ordinamento, basi della convivenza civile e limiti e ispirazione dell'azione legislativa.
Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Così recita l'articolo 19 della Carta, che riconosce a tutti (non solo ai cittadini) la libera professione della fede religiosa. I costituenti hanno ritenuto opportuno dedicare alla libertà religiosa un capitolo a sè, segno che nella loro opinione una religione non fosse semplicemente un'idea come le altre, ma molto di più. Se infatti la religione fosse stata una concezione del mondo al pari delle altre, per tutelare la libertà religiosa sarebbero bastate altri articoli: il 18 per garantire le associazioni religiose, il 17 per le assemblee di fedeli, il 21 per la libera espressione delle idee religiose e così via.
La Costituzione, invece, dedica un intero articolo per garantire in special modo la libertà religiosa, non relegandola al piano privato (il culto può essere celebrato in pubblico e pubblicamente si può propagandare la fede), nè in qualche modo ostacolando la formazione di organizzazioni di fedeli. La professione deve poter avvenire in qualsiasi forma con l'unico limite del buon costume, ovvero la pubblica decenza.
Sulle facoltà riconosciute alle associazioni religiose, è stato dedicato perfino uno specifico articolo, il ventesimo della Costituzione.
Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.
Dunque un'associazione religiosa deve vedersi riconoscere tutti i diritti che hanno le associazioni di altro genere, nessuno escluso. Il carattere religioso, inoltre, non deve nemmeno essere un limite alle attività svolgibili, motivo per cui un gruppo religioso potrebbe in teoria perfino sostenere linee politiche e prendere parte alla vita pubblica del paese in modo rilevante(e no, in tal caso non di potrebbe parlare di ingerenza).
Ciò che abbiamo visto fin qui potrebbe comunque far pensare ad una laicità di tipo americano: tutti i gruppi religiosi sono liberi e indipendenti e lo Stato, neutrale, non si interessa in nessun modo della vita religiosa del cittadino, che si può realizzare in tutto e per tutto in queste forme associative. Ma così non è.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Così recitano rispettivamente gli articoli 7 e 8 della Costituzione. Il primo è dedicato al rapporto tra lo Stato e la Chiesa cattolica, rapporto particolare perché la Santa Sede è soggetto di diritto internazionale. Il secondo, invece, è dedicato al rapporto tra lo Stato italiano e tutte le altre confessioni religiose. Il modello seguito in entrambi i casi non è quello della reciproca indifferenza, ma pattizio: lo Stato viene incontro alle associazioni religiose perché, mediante intese, esse possano svolgere il proprio ruolo (ritenuto evidentemente importante da parte dei costituenti) nel modo più efficace, anche contando di un rapporto con le istituzioni in qualche modo "personalizzato".
Coloro che quindi credono che lo Stato dovrebbe fondamentalmente disinteressarsi della problematica religiosa e in nessun modo favorire le diverse confessioni, devono semplicemente sapere che non è questo il modello di nazione indicato dalla Costituzione, che ha preferito invece organizzare una repubblica inclusiva (non atea, non indifferente, non confessionale) in cui effettivamente si possa pienamente svolgere la personalità (come recita l'articolo 2) dei singoli individui.

martedì 15 febbraio 2011

Bombe ad orologeria? No, centrali nucleari francesi

E così l'agenzia francese per l'energia atomica ha dovuto rivelare che da un quarto di secolo a questa parte 34 centrali nucleari da più di 900 megawatt avevano i dispositivi di sicurezza difettosi. In Italia dovrebbe interessarci molto la faccenda, perché è appunto la tecnologia francese che stiamo importando per costruire le nostre fantomatiche centrali nucleari future.
Un reattore nucleare funziona grazie ad una reazione a catena in cui con un neutrone si bombarda un atomo di uranio, il quale si scinde in due elementi più leggeri liberando una grande quantità di energia, oltre che ulteriori neutroni che poi vanno a colpire gli altri atomi di uranio vicini. Perché si autoalimenti, la reazione non deve mai essere interrotta (non si può spegnere una centrale nucleare), ma nello stesso tempo occorre tenerla a bada perché non produca troppa energia e non diventi incontrollabile. Se si perde il controllo, l'energia sprigionata è tale da far fondere il reattore, con tutte le conseguenze che si conoscono bene.
Per evitare la fusione del reattore, sono installati nelle centrali nucleari dei sistemi di raffreddamento d'emergenza che si attivano non appena l'energia prodotta raggiunge livelli critici. Nelle 34 centrali francesi erano appunto quesi sistemi ad essere difettosi, tanto da rendere virtualmente possibile un disastro come quello di Chernobyl.
Nonostante le crescenti critiche da parte dell'opinione pubblica, l'agenzia nucleare francese ha deciso che il rischio è a livelli tollerabili (finché non c'è la minaccia imminente che esplodano tutte e 34 all'unisono va bene, vero?) e che le centrali potranno rimanere in funzione. Del resto, lo spegnimento di un reattore si rivela essere quasi sempre una scelta definitiva e non sarebbe tollerabile per la Francia, paese dipendente per i tre quarti delle proprie forniture elettriche dalle centrali atomiche, la perdita di tutti i propri maggiori reattori per un tempo indeterminato.
Sul Forum Nucleare Italiano, il sito creato da Chicco Testa e dall'intera lobby nuclearista per propagandare la scelta del governo di costruire nuove centrali nucleari in Italia, nella home di oggi troverete articoli contro le energie rinnovabili, ma nessun accenno alla notizia. Il sito, infatti, afferma di voler contribuire, come soggetto attivo, alla ripresa del dibattito pubblico sullo sviluppo dell’energia nucleare in Italia e di voler favorire una più ampia e approfondita conoscenza dell’opzione nucleare e delle sue implicazioni come condizione indispensabile di un confronto non pregiudiziale su questo tema.
Tenendo presente che la notizia riguarda quel modello di centrale-rottame che i francesi ci vogliono rifilare, forse sarebbe stato bene dedicarle un po' più di spazio.

venerdì 11 febbraio 2011

Libero e Il Riformista, giornali di Angelucci

Nel giorno della vittoria dei ribelli in Egitto, dedico una breve nota ad un fatto di casa nostra, assolutamente secondario se non mi avesse coinvolto tempo fa in un diverbio con un altro blogger sulla meritevolezza dei contributi pubblici ai giornali degli Angelucci, Libero e Il Riformista. Tanto mi basta per invertire le precedenze.

L'Agcom, l'Autorità Garante per le Comunicazioni, ha accertato che Libero e il Riformista appartengono entrambi a Tonino Angelucci (e che quindi gli assetti proprietari dichiarati ufficialmente non sono veritieri) e che Libero ha ricevuto milioni di euro di finanziamenti non dovuti dal fondo della Presidenza del Consiglio a favore dell'editoria. Adesso la testata dovrà restituire il denaro pubblico che ha intascato facendo carte false, ma probabilmente anche il Riformista dovrà fare lo stesso, a causa dell'illecito commesso dai comuni padroni.
Non si tratta di un agguato della magistratura comunista: l'Agcom, come tutte le autorità indipendenti, è di nomina politica, con membri in quota ai partiti di maggioranza e opposizione e con un presidente, Calabrò, dal passato molto vicino al Presidente del Consiglio (ne fu sottosegretario).
Ora le due testate, già sostenitrici della lotta agli sprechi e per la legge del libero mercato, dovranno vedersela con lo stesso mercato tanto invocato, ma che negli anni non li ha mai premiati. Vedremo cosa succederà.

mercoledì 9 febbraio 2011

Problemi pubblici del bunga-bunga privato

Da ciò che i giornali riferiscono delle carte della Procura e dalle inchieste giornalistiche, sembra che le notti di Arcore abbiano avuto numerosi risvolti di interesse pubblico. Col beneficio del dubbio (prima di gridare "al ladro" quando si viene borseggiati si deve attendere il terzo grado di giudizio, sempre!), ecco un elenco sommario sul motivo per cui il bunga-bunga è, lungi dall'essere un problema privato, uno scandalo politico pubblico.
  1. Sembra che per comprare il silenzio di Ruby e di altre ragazze e per eliminare le foto compromettenti siano state sborsate barche di soldi, sull'ordine delle centinaia di migliaia di euro. Ci si è limitati a questo, oppure il Presidente del Consiglio ha anche sfruttato il proprio potere di capo di partito e di governo per aver modo di soddisfare le richieste delle persone che lo avrebbero potuto ricattare?
  2. Ruby è stata tirata fuori da una questura per interessamento diretto del Presidente del Consiglio, con la motivazione (scusa?) che fosse la nipote di Mubarak. Nel caso probabile che fosse una palese menzogna, abbiamo un esempio di come il potere possa essere abusato in favore di persone a cui, per qualche ragione, si deve qualcosa. E' stata la prima e ultima volta, oppure esistono o esisteranno altre ragazze del bunga-bunga che abbiano beneficiato o beneficeranno di comportamenti analoghi da parte del premier?
  3. Il comune di Sanremo (amministrato dal Centrodestra) ha speso 100 000 euro in una campagna di promozione turistica con manifesti in cui sono presenti tre delle ragazze del bunga-bunga (le quali hanno ricevuto un compenso di 48 000 euro). Il denaro, pubblico, è stato versato a Lele Mora che si è occupato del loro reclutamento. Si possono conoscere tutte le somme pagate da enti pubblici a persone coinvolte nelle nottate di Arcore?
  4. Nicole Minetti, ragazza del bunga-bunga, è stata fatta diventare consigliere regionale della Lombardia e, da ciò che risulta dalle intercettazioni, sembra che ciò sia avvenuto proprio per la sua partecipazione alle nottate di Arcore. Si possono conoscere tutte le persone coinvolte nei festini che in seguito hanno ricevuto incarichi istituzionali?
Solo quando si farà chiarezza su questi punti allora Berlusconi potrà dire che il bunga-bunga è una faccenda privata e che non ne deve rendere conto a nessuno. Sempre che non torni a frequentare i Family Day e a spacciarsi per il paladino della Cristianità...

domenica 6 febbraio 2011

Marchionne, lo Zio d'America (precisamente di Detroit)

La vittoria del al referendum di Mirafiori era stata una festa per il governo, gli industriali, CISL e UIL, Chiamparino e tutto il Pd che da tempo ha ormai deciso che sinistra è un vecchio concetto che non tira più, che oggi si deve stare dalla parte dei manager, non di quella dei lavoratori sempre più attratti dalla Lega.
Non si era fatto in tempo a scolare tutto lo spumante e a presentare come un grande traguardo l'imitazione del modello Fiat anche nelle relazioni sindacali nella Pubblica Amministrazione (dove CISL e UIL hanno nuovamente firmato un accordo senza la CGIL) che Marchionne ha gelato tutti annunciando che, insaccato il placet del sindacato compiacente (o connivente?), probabilmente procederà con la fusione con Chrysler e quindi farà armi e bagagli con tutto il quartier generale (o, come si dice ora all'americana, headquarter) della nuova società e se la svignerà a Detroit. La Fabbrica Italiana Automobili Torino perderà quindi la T e forse pure la I dell'acronimo...
Il governo, alle prese con i problemi a luci rosse del Capo, se ne è inizialmente fregato, come se ne è sempre fregato di ogni cosa che agli occhi dei ministri potesse apparire anche lontanamente seria. Più agitato è, invece, l'headquarter del Pd che, dopo aver appoggiato Marchionne senza se e senza ma, adesso deve spiegare ai propri elettori (in primis a quelli torinesi) che il loro Uomo della Provvidenza industriale era in realtà l'ennesimo cialtrone.
Fassino, futuro candidato sindaco del Pd a Torino, balbetta una richiesta di spiegazioni all'AD dell'impresa (ancora per poco) torinese, mentre il sindaco Chiamparino spiega, credendo di rassicurare, che la sede italiana non sarà proprio cancellata, ma diventerà una delle quattro sedi locali del gruppo, quella responsabile per il mercato europeo. Insomma, il Lingotto sarà un ufficio di terz'ordine, mentre il cuore sarà in Michigan.
Solo alla fine Silvio, forse ricordandosi di essere anche il Presidente del Consiglio, ha dato mandato al ministro per lo sviluppo economico Sacconi di fissare un incontro con Marchionne per sondare le sue intenzioni. L'amministratore delegato - dice Sacconi - avrebbe smentito le proprie parole (abbiamo scoperto un altro maestro del sono stato frainteso?) assicurando che la Fiat non sposterà mai all'estero il proprio centro direzionale e progettuale.
Anche il Corriere, fin dal primo momento, ha pensato bene di provare a ridimensionare l'uscita dell'Ad. Sul quotidiano Rcs, gruppo con partecipazioni della Fiat, possiamo leggere che "c'è un po' di confusione sulla traduzione, lui parla di headquarter ed è difficile dire se intenda il quartier generale «base» o più semplicemente un «gemello» del Lingotto". Non si capisce bene se la giornalista non abbia ben chiaro il concetto di fusione di società oppure quello di quartier generale (hadquarter), ma sembra chiaro a tutti che il quartier generale di una società (ciò che saranno Fiat e Chrysler unite) dovrebbe essere il suo centro direttivo e progettuale, non una delle sue tante sedi.
Combinando le recenti parole di Marchionne con ciò che affermò a Che Tempo Che Fa, però, non si può che dedurre che, per la Fiat che verrà, l'Italia, il paese che ha cresicuto e coccolato quell'impresa a colpi di finanziamenti pubblici, non sarà altro che un pezzo tra i tanti della filiera produttiva, e nemmeno il più importante.

venerdì 4 febbraio 2011

L'ANP offre tutto, ma non basta ancora: come non si fa una pace

Mentre tra i palestinesi si continua a morire, quella che ho già definito la wikileaks dimenticata ci svela i pietosi retroscena delle trattative di pace dell'ANP con Israele, vero manuale di come non si costruisca una pace equa, vera e duratura.
Intanto ricordiamo che l'attuale governo dell'ANP di Ramallah non è quello legittimo: le ultime elezioni, infatti, le vinse il partito Hamas che conquistò la maggioranza in parlamento ed è al movimento islamico sarebbe spettato di formare il nuovo governo palestinese. Invece il partito Fatah, quello dello scomparso Arafat e del presidente Abu Mazen, non accettò l'esito del voto e, insorto in armi, prese il controllo della Cisgiordania e cominciò a reggerla col sostengo di Israele e dell'Occidente, che non avevano riconosciuto la legittimità Hamas.
Da quel momento in poi, la Gaza di Hamas e la Cisgiordania di Fatah hanno conosciuto due destini profondamente diversi, dato che la prima ha subito un'invasione israeliana ed è da anni sotto un assedio congiunto di Israele ed Egitto, mentre la seconda è stata inondata di milioni di dollari di sovvenzioni americane per permettere ai suoi governanti di consolidare la propria posizione.
In Cisgiordania, dove Fatah ha creato un circolo di clientele grazie al denaro occidentale e dove in molti cominciano a lamentarsi dei metodi autoritari che cominciano a prendere piede contro gli oppositori, sarebbe dovuta nascere (secondo la propaganda) una società palestinese democratica, pacifica ed amica di Israele. Wikileaks, invece, ci fa sapere che i politici palestinesi, dipendenti più dai contribuenti europei ed americani che dai propri cittadini, stanno di fatto svendendo la pace con Tel Aviv.
La questione delle risorse idriche balzò agli occhi mesi fa e sicuramente era un indizio sullo scarso impegno della rappresentanza dell'ANP nel portare avanti gli interessi della propria parte nei negoziati di pace. Adesso si viene a sapere che i negoziatori avevano deciso di rinunciare a numerosi quartieri di Gerusalemme, avevano accettato l'idea americana di non far rientrare i profughi palestinesi nelle loro case, ma di sistemarli in Sud America, ed, infine, avevano offerto di permettere l'annessione a Israele di moltissimi insediamenti ebraici abusivi costruiti in territorio palestinese. Una calata di brache, agli occhi dell'opinione pubblica araba e non solo.
Wikileaks ci svela anche che, col consenso degli USA, l'allora governo israeliano di Olmert respinse la proposta (ringraziando, però, per la buona volontà!) ritenendola insufficiente: Israele voleva di più, ora che aveva un interlocutore fantoccio a cui far firmare un trattato umiliante. Del resto, Olmert doveva da un lato trattare per dimostrare la propria buona volontà al mondo, ma dall'altro garantire all'elettorato di destra israeliano la permanenza dei coloni e la futura possibilità di espansione illegale degli insediamenti abusivi.
Con la caduta di Olmert e l'elezione di Netanyahu, questa trattativa farsesca si è infine interrotta e Israele ha cominciato a chiedere pubblicamente quello che fino a poco prima lasciava intendere attraverso i canali riservati. L'ANP, così, ha dovuto cominciare ad opporre resistenza al fine di non perdere i pochi stracci di credibilità che le rimanevano nei confronti della sua opinione pubblica.
Ora l'uscita di questi cablogrammi di Wikileaks è stata un vero terremoto in Cisgiordania: Fatah ha apertamente tradito la causa palestinese e l'intransigenza di Hamas comincia a piacere sempre di più, così come la sua capacità di mantenere un minimo di organizzazione statale anche in quella Gaza che l'assedio ha cercato di trasformare in un inferno. E' categoricamente da escludere, quindi, che nuove elezioni palestinesi possano dare esito diverso dal tracollo del partito di Abu Mazen.

martedì 1 febbraio 2011

Rivolte d'oltremare

Paesi coinvolti nei disordini
Nella cartina si può vedere la geografia dei disordini che in questo inizio di 2011 hanno riguardato l'intera sponda meridionale del bacino del Mediterraneo. Le uniche nazioni risparmiate, tra quelle rivierasche, sono state la Libia, il Libano e Israele, anche se per ragioni diverse. Il regime libico, di stampo autoritario, sembra godere di una salute migliore rispetto alle altre dittature nordafricane, anche se non è detto che il contagio rivoluzionario non si espanda anche in quel paese stretto tra la Tunisia che ha ormai cacciato Ben Ali e l'Egitto che sta per cacciare Mubarak. Israele e il Libano, invece, sono già paesi democratici (anche se entrambi sui generis) e non hanno conosciuto scontri di piazza. Fuori mappa lo Yemen, anch'esso attraversato da proteste.
Nella cartina hanno colorazioni diverse la Tunisia (dove la rivolta ha già registrato un primo successo, anche se non è ancora conclusa), l'Egitto (dove la rivolta è in atto proprio in questi giorni), l'Algeria e il Marocco (paesi magrebini dove i tumulti ci sono stati, ma per ora principalmente per ragioni economici e non con l'incisività tunisina) e infine Mauritania, Siria e Giordania (toccate da fatti di minore rilievo, almeno per ora). Caso leggermente a sè è il Sudan, nazione da qualcuno definita Stato-rottame è che in questo periodo oltre alle proteste contro il suo dittatore sta vivendo anche lo spettro della secessione (o della dissoluzione).
Tutte le nazioni colorate sono rette da governi non eletti democraticamente, ma che, in un modo o nell'altro, sono funzionali agli interessi occidentali nella regione. Così l'Algeria è primaria per gli approvvigionamenti europei di idrocarburi, il Marocco e la Giordania sono cani da guardia contro l'ascesa di partiti antioccidentali di ispirazione religiosa e l'Egitto è un paese che ormai da anni collabora attivamente con Israele nel blocco totale contro la Striscia di Gaza. Non è caso che sia stato Blair, il responsabile per la promozione dei negoziati di pace tra Israele e Palestina, ad auspicare una transizione ordinata in Egitto al fine di evitare di cambiare gli equilibri nella regione (tradotto, di rendere meno salda la posizione di forza israeliana...). Solo la Siria è malvista dalle cancellerie americane ed europee per i suoi rapporti troppo stretti con l'Iran.