Stewart Brand è una delle figure di spicco dell'ecologismo americano. E' visto da alcuni come un messia, da altri come un traditore della causa ambientale. Gli piace definirsi un ecopragmatico, neologismo che indica un ecologista non arroccato su posizioni ideologiche, e il suo nuovo libro, Una cura per la Terra, fa già discutere.
Nel saggio l'autore sostiene che il futuro del pianeta sarà garantito da megalopoli ad altissima densità abitativa, dagli OGM e dall'energia nucleare e su La Repubblica è apparsa un'intervista in cui ci viene data un'anticipazione molto interessante.
Sulle città sovrappopolate sembra più pragmatico un idealista come Latouche che parla di decrescita (dell'economia e della popolazione), piuttosto che un americano pragmatico che ci invita a trasferirci tutti in supercondominii da migliaia di residenti in stile giapponese, dove la spersonalizzazione è completa e finalmente l'individuo subirà una volta per tutte la trasformazione da persona a numero: se anche questo fosse un toccasana per l'ambiente, lo sarebbe maggiormente per gli strizzacervelli che vedranno aumentare esponenzialmente i pazienti che si rivolgeranno a loro per depressione.
Quanto agli OGM, più che al futuro sembrano ormai appartenere al passato della tecnologia: se ne parla da lustri, ma stanno venendo progressivamente banditi dai nostri campi e dalle nostre tavole. L'autore arriva fino a collegare gli organismi transgenici all'Africa e ignora bellamente le conseguenze disastrose che essi hanno sui paesi poveri: quelle piante sterili (le aziende non fanno mai un prodotto in grado di replicarsi) obbligano i contadini locali ad indebitarsi ogni anno con le multinazionali che producono le sementi (non hanno i soldi per pagarle subito e offrono in garanzia i frutti), in una ripetizione che non potrà mai avere fine. I risultati sono la distruzione dell'agricoltura tradizionale e la crisi irreversibile della biodiversità (l'ecopragmatico ne ha mai sentito parlare?).
Il capolavoro, però, è l'inno "ambientalista" al nucleare, agiografia ormai troppe volte sentita. Abbiamo già visto come persone che fino a due anni fa negavano i cambiamenti climatici adesso ne siano divenute i più convinti profeti visto che il terrore dei tre gradi in più sembrerebbe un ottimo incentivo alla fabbricazione di reattori. Brand, invece, fa parte della schiera di coloro che, sentendo gli argomenti dei primi, è passato dal campo antinuclearista convinto a quello radicalmente opposto.
Ci dice che le radiazioni non fanno male (Chernobyl era più che altro un'isteria collettiva, a quanto pare) e che le scorie non sono un problema, poiché la soluzione esisterebbe già (vetrificare i rifiuti; ma questo serve solo ad evitare la polverizzazione, non c'entra nulla con la radioattività in sè), che i depositi di stoccaggio starebbero già venendo fatti in Francia, Svezia e Finlandia e che stivare tutto nelle miniere di salgemma ci libererebbe per sempre del problema. Peccato che in Germania la miniera di salgemma di Asse, auspicato deposito definitivo delle scorie, sta dovendo essere sgomberata in fretta e furia perché le infiltrazioni d'acqua stanno sommergendo i fusti e il sito rischia di crollare, mentre in Francia attualmente non esiste nessun deposito permanente di scorie radioattive e i fusti sono semplicemente ammassati in container lasciati in depositi a cielo aperto. Qui si può vedere un documento (di quasi due ore) andato in onda sul tema poco tempo fa sul tema.
Ma l'ecopragmatico non deve aver avuto notizia di tutto ciò e, mentre il Portogallo produce il 60% della propria energia da fonti pulite e nel mondo il numero delle centrali nucleari è stazionario a causa dei loro costi eccessivamente antieconomici (ho già citato lo studio del MIT), lui chiede ai governi di spendere dove nessun privato investirebbe per un'energia che appartiene ormai alla preistoria delle fonti. Molto pragmatico.
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