lunedì 25 luglio 2011

Otto per mille, una questione di trasparenza

Un leitmotiv dell'anticlericalismo è l'esistenza dell'otto per mille, vero scandalo e segno della corruzione insanabile della Chiesa cattolica. Non tollerano, questi critici, che una simile somma di denaro possa giungere al clero con questa regolarità e non accettano che la maggior parte di questo contributo sia destinata al sostentamento degli ecclesiastici e alle spese di gestione dell'organizzazione.
Al contrario suscitano molta ammirazione quei gruppi protestanti (Valdesi in primis) che dichiarano di impiegare tutte le somme dell'otto per mille per opere di carità, senza tenere nulla per sè e autofinanziandosi in altro modo. Appunto, questo è il vero problema: in quale altro modo si autofinanziano?
Purtroppo, a differenza che per l'otto per mille, di cui conosciamo l'ammontare e l'impiego di ogni beneficiario, di queste altre fonti di finanziamento delle organizzazioni religiose (Chiesa cattolica inclusa) non sappiamo e non possiamo sapere niente. E' Dio che fa piovere manna dal cielo? Oppure sono rendite finanziarie? O, infine, sono semplicemente elargizioni di misteriosi donatori che per noi restano anonimi, ma che per il ministro di turno hanno nome, cognome e volto, oltre che interessi da tutelare?
Valutando con scetticismo la prima ipotesi e sospendendo il giudizio sulla seconda, resta che la maggior parte delle entrate fuori dall'otto per mille sono rappresentate dai donativi dei privati, che siano fedeli oppure no.
Se sono fedeli, è chiaro che ci sarà chi potrà donare di più e chi potrà donare di meno: il ministro del culto sarà più attento a non urtare la suscettibilità di chi dona cinque euro alla settimana, oppure di chi ne versa cinquecento più altrettanti per le ricorrenze particolari? E come può, per esempio, un religioso cristiano decidere di scagliarsi una domenica contro la ricchezza se il suo sostentamento dipende dal denaro di un possidente generoso? E, tra i musulmani, sicuri che il tenore dei sermoni dell'imam non varierà a seconda di chi sarà il ricco contribuente straniero che sosterrà la moschea?
Se invece le donazioni provengono da persone estranee alla comunità, lo scenario diventa allora tragico: che interesse hanno costoro a contribuire? E, se contribuiscono in modo rilevante, possibile che non avranno un peso abnorme nella vita religiosa, tanto da riuscire a controllare da dietro le quinte il ministro così dipendente dalla loro generosità?
Infine, alcuni gruppi religiosi (come i veterocattolici) sostengono di essere indipendenti perché i loro ministri, non percependo nulla dalla comunità, hanno l'obbligo di lavorare per vivere. Ottima cosa, il lavoro teoricamente garantisce l'indipendenza economica. Teoricamente, perché occorre vedere che lavoro è: un ministro negoziante, per esempio, potrebbe non aver voglia di fare affermazioni scomode che allontanino i suoi clienti; un ministro lavoratore dipendente, invece, potrebbe doversi ogni tanto chiedere se ciò che predicherà favorirà o meno il suo licenziamento, visto che prima di rispondere a Dio o ai fedeli dovrà garantirsi la benevolenza del datore di lavoro che gli dà di che vivere.
Tornando alla Chiesa cattolica, qualsiasi lobby farebbe i salti di gioia se venissero strappati alla Chiesa gli unici soldi sicuramente puliti che essa gestisce. Nel mare delle dichiarazioni dei redditi, non ha alcun peso la minaccia del singolo di dirottare il proprio contributo altrove se la Chiesa non dovesse essere abbastanza pronta ad esaudire le sue richieste. Al contrario, le buste al parroco o al vescovo hanno un potere di convincimento e di ricatto notevolmente superiore.
Peggio ancora va se l'autofinanziamento dell'organizzazione religiosa proviene da attività economiche, ovvero da rendite finanziarie: ogni volta che si entra nel mondo del lucro ogni scopo ideale muore a vantaggio del torbido tornaconto economico immediato.

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