sabato 25 dicembre 2010

I mercanti nel tempio o i sacerdoti al mercato?

Ho già avuto modo di scrivere che, se una volta c'erano il Tempio e i mercanti, con i secondi che entravano nel primo per avvantaggiarsi nei propri affari, la nostra epoca moderna ha preferito con molta praticità unificare le due istituzioni. La festa in cui in gran pompa si celebra questa fusione è il Natale.
Si cominciò in sordina, importando la figura di un santo anatolico rivisitato dalla Coca Cola (San Nicola, Sanctus Nicolaus, Santa Claus, Babbo Natale), che col benessere si è affiancato alla Befana (ossia l'Epifania) nella distribuzione di regali ai bambini, superandola rapidamente per importanza. Poi gli anni della crescita economica e dell'abbondanza dei generi di consumo resero universale lo scambio dei doni ed il relativo shopping prenatalizio. Il Natale, così, da religione si è trasformato in tradizione, ovvero in un insieme di gesti e di riti che si ripetono perché si devono ripetere, senza una ragione precisa.
In seguito c'è stata la secolarizzazione e gli elementi caratterizzanti della tradizione del Natale hanno smesso di essere quelli cristiani (che da tradizionali sono tornati ad essere eminentemente religiosi) a vantaggio degli aspetti più mondani, come l'albero, il cenone, i regali e Santa Claus. Il collegamento tra la festa e la fede si è quindi affievolito, così che oggi anche il peggiore mangiapreti taglia il panettone con gioia (quando in passato gli anticlericali, come Mussolini, nei confronti della ricorrenza nutrivano una profonda ostilità).
Le due metà della festa tra loro sono difficilmente compatibili: da una parte c'è il cristianesimo che, almeno nella sua versione cattolica, elogia il pauperismo ("ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote." o più facile che un cammello [che poi sarebbe una gomena, per traduttori più accorti] passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio", ecc), dall'altra c'è la festa dei regali, che col tempo diventano sempre più costosi (secondo l'ISTAT si spenderebbero in media più di 1300 euro a famiglia per i doni) e che sono completamente svincolati dall'occorrenza religiosa (li fanno e li ricevono anche i non cristiani).
La messa di Natale, parallelamente, è divenuta il palcoscenico giusto per lanciare giaculatorie sul consumismo della nostra società occidentale e sulla secolarizzazione. Si tratta nelle sue versioni più estreme di una vera condanna senza appello dell'aspetto mondano della festa.
Alcuni commentatori cattolici, come Socci,  al contrario scrivono che il consumismo natalizio è pienamente compatibile con la fede cristiana e che, anzi, è sua manifestazione vistosa: i beni terreni - dicono - sono dono di Dio e dovere del cristiano in festa sarebbe goderseli spensieratamente, anche a vantaggio della "nostra economia che soffre di un Pil stentato". Male fanno, anzi, i preti che condannano consumismo e materialismo, perché così facendo sottrarrebbero spazio alle vere riflessioni sulla fede!
Le idee di Socci in materia, del resto, si inseriscono bene nella mentalità dell'autore che assorbe moltissimi stimoli religiosi provenienti dall'altra sponda dell'Atlantico, dove, negli USA, Tempio e Mercato si sono saldati dichiaratamente e anche le Chiese si sottopongono al meccanismo della concorrenza e della legge della domanda e dell'offerta (hanno perfino gli spot in TV): non c'è da stupirsi che il fedele-consumatore ritenga più che divinamente giustificato il meccanismo economico col quale è giunto a Dio.
Ma ai fedeli non ancora contagiati da queste nuove idee d'oltreoceano, al fine di evitare la prosecuzione di questa sterile disputa sull'opportunità o meno di ricordare facendo shopping la nascita di Cristo in una stalla, non resta che prendere atto una volta ancora che l'Occidente non è più la Cristianità. Si dovrebbe così riconoscere l'esistenza di due diverse feste del Natale: quella a cui partecipano tutti, qualsiasi siano le loro convinzioni religiose, e che comprende gli addobbi puramente estetici, i regali e il cenone, e l'altra, importante solo per chi crede, con la Natività ed il culto.
Sia ben chiaro che questo non è un auspicio alla dicotomia, ma è semplicemente l'osservazione di ciò che già accade. Prendere atto del fenomeno, però, avrebbe l'indubbio vantaggio di permettere alla seconda festa di riacquistare la dignità che ha perso da quando, mescolata alla prima, si è ridotta ad essere un semplice spazio mentale del credente.

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