giovedì 19 agosto 2010

Il vegetarismo salverà il pianeta? Forse no

In ambito ambientalista si sta sempre più rafforzando la corrente animalista, ovvero quella che vede come priorità non tanto la salvaguardia dell'ecosistema nel suo complesso, quanto la tutela delle specie animali (nei casi migliori) o la tutela dei singoli individui appartenenti alle specie animali (nei casi più frequenti). Animalismo, per esempio, è quel movimento che vuole estendere molti diritti umani alle scimmie superiori (e perché no agli scarafaggi?), oppure quello che ha protestato quando, per salvaguardare l'equilibrio tra erbivori e vegetali nei boschi italiani ormai svuotati di tutti i predatori naturali, si sono aperte battute di caccia straordinarie per eliminare gli erbivori in eccesso, che stavano pian piano distruggendo il patrimonio forestale (già in pericolo) della Penisola.
Tutto ciò dimostra che spesso le istanze ambientaliste e quelle animaliste sono in contrapposizione tra loro, come spesso sono in contrapposizione le stesse esigenze dell'ambiente al proprio interno (per esempio, la questione delle pale eoliche, che rovinano il paesaggio, ma riducono l'inquinamento). Tuttavia recentemente la questione è stata riaperta da una frangia particolare di animalisti, i vegetariani, ovvero coloro che non mangiano carne. Esistono poi coloro che non mangiano proprio nessun prodotto di origine animale (come latte e uova), i cosiddetti vegani.

Il 21 agosto è un giorno particolarissimo per il nostro intero pianeta, sebbene nessuno si stia preparando per farlo risaltare con grandi eventi, manifestazioni o memoriali: quel giorno l'umanità avrà consumato, a partire dal 1° gennaio, tutte le risorse che la Terra è in grado di produrre in 365 giorni. Ovvero, in otto mesi abbiamo speso ciò che si produce in dodici. La vita tuttavia continuerà e saremo costretti, nei mesi successivi, ad impiegare risorse che non saranno rinnovate, in un depauperamento progressivo.
Si tratta, naturalmente, di una media, dato che alcune delle risorse (come gli idrocarburi) non sono rinnovabili di per sé, mentre altre (come il sale) sono gratuite e sempre disponibili ampiamente. Esistono, però, altre risorse che si collocano in una via di mezzo tra questi due estremi, come l'acqua potabile, le risorse agricole, i pascoli, gli allevamenti, il pescato, l'estrazione di legno e tanto altro ancora, che la Terra è in grado di rinnovare solo un tanto all'anno, soglia sopra la quale le sue capacità rigenerative vengono meno.
Per fare degli esempi pratici, diremo che i pesci del mare sono pescati ben sopra la loro capacità di riprodursi tra una pesca e l'altra, così che il loro numero declina. Così anche i terreni agricoli, ipersfruttati, perdono la propria fertilità costringendo chi li coltiva a ricorrere a dosi sempre maggiori di concimi. Le foreste arretrano ovunque siano sfruttate sistematicamente per il legnamo, ma anche dove devono lasciar posto a campi e pascoli. L'acqua è sprecata in tutto il mondo ricco, ugualmente, che adesso sta ricorrendo abbondantemente alle falde fossili, ovvero quei giacimenti creatisi tanti millenni fa e che non sono più approvigionati dalle piogge.
E' uno scenario fosco, dovuto in gran parte allo stile di vita di noi residenti nei paesi ricchi: servirebbero le risorse di un pianeta e mezzo per accontentarci tutti, ma di mondo ne abbiamo uno solo e anche in rapido depauperamento. Se, poi, tutti dovessero godere dello stile di vita statunitense, di mondi ne servirebbero cinque...
Così i più illuminati (i più se ne infischiano, invece) pensano a strategie per invertire la tendenza, promuovendo la cosiddetta decrescita, ovvero la riduzione del nostro impatto sull'ecosistema. Riciclaggio, energie rinnovabili, riduzione degli imballaggi e dei consumi in generale sono ricette utilissime. Così come sarebbe anche buona cosa la riduzione del consumo di carne, soprattutto del manzo, che richiede enormi dosi di mangime per produrre molto meno nutrimento. Gli allevamenti, infatti, sono vere e proprie macchine per lo spreco di calorie, visto che per produrre un chilo di carne di manzo servono sei chili di mangimi (ricavati da cereali), con uno spreco dovuto al fatto che non tutto il cibo mangiato dal capo di bestiame si "trasforma" in carne, ma in gran parte è speso per la sua attività biologica.

I vegetariani sono convinti che gran parte del nostro peso sull'ambiente sarebbe ridotto semplicemente smettendo di consumare carne, perché ciò diminuirebbe l'uso di terreno agricolo a vantaggio degli ambienti naturali (la maggior parte delle terre coltivate sono sfruttate per allevare animali) e si potrebbero sfamare molte più persone con una produzione agricola molto minore. Posizione che dai vegani è stata portata alle estreme conseguenze, incontrando il favore di molti ambientalisti. Posizione che, però, deve essere sottoposta ad una seria analisi critica.
Prima di tutto, si devono verificare le conseguenze sull'organismo umano del regime alimentare dei vegani. Sui bambini e sugli adolescenti una dieta priva di carne, uova e latticini ha effetti deleteri sulla crescita, può provocare scompensi di sostanze fondamentali (come il calcio) e favorisce il rachitismo. La loro dieta difetterebbe, infatti, delle cosiddette proteine nobili, quelle che in quantità minore nutrono maggiormente l'organismo. Per rimediare, si è costretti ad un maggiore consumo di legumi, con proteine di più difficile assorbimento, e con i conseguenti problemi intestinali, reposnsabili di carenze nell'assimilazione del ferro e di altri nutrienti. Insomma, una vita da vegano fin da bambini è a ben vedere sconsigliabile per motivi di salute. E' valido anche l'interrogativo sull'accettazione da parte di questa corrente dei vestiti di lana e, in caso contrario, se sia davvero una buona idea sostituirli con la fibra sintetica ricavata dal petrolio.
Una dieta vegetariana, al contrario, non incontra questi ostacoli: i nutrienti di origine animale arrivano all'organismo grazie a latticini e uova e l'alimentazione appare ben bilanciata. Si può dire, dunque, che dal punto di vista alimentare è meglio essere vegetariani che accaniti mangiatori di carne. Resta da valutare il beneficio ambientale della scelta, ovvero se sia davvero necessario rinunciare totalmente alla carne e se ciò effettivamente ha le conseguenze benefiche sperate sull'ambiente.
Per prima cosa va rilevato che il vegetarismo non elimina l'esistenza dell'allevamento, ma, semmai, riduce l'ampiezza del fenomeno. Inoltre va notato che solo metà degli animali che nascono sono utili alla dieta vegetariana, ovvero le femmine che producono uova e latte. I maschi, invece, sono completamente inutili e, in quest'ottica, dovrebbero essere abbattuti in massa appena nati con pochissime eccezioni: una soluzione che farebbe inorridire ogni animalista, si suppone, ma che sarebbe necessaria per non allevare animali assolutamente inutili e che consumerebbero preziose risorse ambientali.
Esiste anche il problema del contenimento del numero dei capi: in un allevamento il bestiame, non soggetto all'aggressione dei predatori, si moltiplica senza freno e tende naturalmente a crescere di numero. Così, pena il dover far crescere esponenzialmente l'attività oltre la domanda di alimenti, si devono per forza abbattere regolarmente alcuni capi. La differenza sta in quali capi abbattere, se i neonati (in un'ottica vegetariana: si conservano solo quelli adatti a far latte e gli altri si buttano), oppure se quelli maturi, da cui si può ricavare carne da rivendere al mercato. La carne ottenuta è poca, ovviamente, ma o la si mangia o la si butta. Appare dunque molto più razionale mangiare poca carne per assorbire quella che fisiologicamente si ottiene dagli allevamenti (si pensi anche alla produzione dei pellami), che uccidere animali per buttare in discarica le loro parti migliori.
Infine occorre fare un ragionamento sul diverso impatto ambientale tra agricoltura e allevamento, non nell'ottica occidentalocentrica degli animalisti, ma con uno sguardo più globale sul problema. Si deve infatti riconoscere che l'allevamento in stalle e la nutrizione con farine di cereali è una novità importata dall'Europa settentrionale e dagli USA per la gran parte delle zone del mondo, incluse molte regioni italiane.
Altrove l'allevamento ha riguardato le terre incolte e lasciate a riposo, contribuendo con gli escrementi del bestiame alla fertilizzazione dei pascoli impiegati, con un impatto ambientale ridotto dal fatto che, nel caso delle terre a riposo, si tratta comunque di ettari già strappati alla natura e destinati alla coltivazione nell'annata successiva, mentre nelle terre incolte dal freno che la pastorizia pone all'allargamento dei terreni occupati e consumati dall'agricoltura.
Esistono aree del mondo in cui il passaggio dall'allevamento all'agricoltura, dalla dieta basata sui prodotti animali a quella vegetariana, sarebbe del resto costosissimo dal punto di vista ambientale. Parliamo delle steppe e delle aree semidesertiche, dove si è assistito al disastro ecologico della desertificazione quando i governi sovietici e cinesi in Asia e degli stati del Sahel in Africa hanno provato a favorire la sedentarizzazione delle popolazioni nomadi che vivevano di allevamento mediante la loro conversione all'agricoltura: i terreni inadatti si sono esauriti rapidamente e grandissime aree di terreno sono state occupate da polvere e sabbia, il deserto che avanzava.
Alla luce di tutto ciò, se senza dubbio la riduzione del consumo di carne (soprattutto nei paesi ricchi) sarebbe un toccasana, il vegetarismo di massa si rivelerebbe tutto fuorché la panacea.

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