domenica 15 agosto 2010

Le due americhe intorno a Ground Zero

La polemica negli USA a proposito della costruzione di una moschea nuova nell'area di Lower Manahttan, a due isolati di distanza dal cratere degli attentati del 2001 al World Trade Center, ha spinto il presidente Obama a prendere una posizione forte sul tema, nonostante i consulenti gli suggerissero circospezione e prudenza per non dare il colpo di grazia alla sua già fin troppo minata popolarità.
Così a pochi mesi dall'appuntamento elettorale di Novembre, quando alle elezioni di metà mandato si prevede una sconfitta epocale per i Democratici, il politico ha pronunciato un discorso netto per toni e contenuti su cosa è l'America e che cosa non deve diventare. Un discorso che si richiama ai fondamenti del costituzionalismo statunitense (materia da lui insegnata in passato), a quel cruciale Virginian Act, col quale fu proclamata inderogabilmente la piena libertà di religione e culto per tutti gli Americani, alla dichiarazione di Thomas Jefferson sulla libertà, alla necessità che ogni uomo possa portare avanti ragionevolmente le proprie convinzioni. Poi Obama ha ricordato con orgoglio il successo del melting pot americano, in cui hanno convissuto pacificamente etnie e religioni che altrove si sono combattute, ha fatto l'elogio della religiosità nazionale, perché tutti siamo figli di Dio (ritornello presentissimo nella tradizione retorica USA: in God we trust) e ha detto che questa è la vera America, non quella chiusa e intollerante che alcuni vorrebbero forgiare.
Purtroppo per il bel discorso (molto americano, ma dell'americanità migliore, quella gelosamente aperta e testardamente libera), gli Americani non sembrano condividere la stessa apertura del loro presidente, dichiarandosi per oltre l'ottanta per cento contrari all'apertura di questo luogo di culto, per loro simbolo quasi di una vittoria dell'Islam contro li USA, di una religione monoliticamente fondamentalista che ha colpito e ora incassa il premio, invece della punizione. E poi c'è il sentimentalismo di tutta quella parte dell'opinione pubblica che associa la moschea al terrorismo e ritiene un'offesa alle vittime osannare a Ground Zero una divinità nel cui nome sono stati fatti tremila morti statunitensi.
Appare quindi un paese spaccato tra la classe dirigente (il Presidente, il sindato Bloomberg, l'élite più aperta) e la stragrande maggioranza della gente comune, guidata dalla destra repubblicana, quella che afferma di essere l'America patriottica capace di battersi contro tutti i nemici, interni ed esterni. Questo è ciò che appare, e che alla destra repubblicana piace che appaia. Tuttavia, andando a guardare più da vicino, esaminando i numeri dei sondaggi in questi giorni sbandierati, ci accorgiamo che, in realtà, le due americhe sono molto diversamente distribuite.
Nella prima troviamo l'élite di cui abbiamo parlato, che cerca di essere fedele agli ideali costituzionali messi a durissima prova dall'amministrazione "patriottica" repubblicana (il Patriot Act dovrebbe essere un simbolo di ciò). Si tratta di una minoranza in tutta la nazione, dominata dalla contrarietà alla moschea, ma è una minoranza molto più consistente proprio a New York, il teatro della vicenda.
Nella megalopoli, infatti, i contrari alla moschea sono "solo" il 54% degli intervistati dalla Cnn, mentre a favore è il 34% circa. Gli altri astenuti. Quindi la città che ha sofferto e si è vista infliggere la profondissima ferita dell'11/9 ha dimostrato di essere capace di reagire positivamente, arroccandosi molto meno del resto degli USA nella generalizzazione patriottardo-reazionaria dei repubblicani. E, similmente, spaccato è anche il fronte dei parenti delle vittime degli attentati, che, a differenza di come li dipinge la coalizione anti-moschea, non considera l'apertura del luogo di culto un terribile gesto nei loro confronti. Quindi perfino i newyorkesi più colpiti tra tutti i newyorkesi sono riusciti ad affrontare lo shock meglio del resto dell'America, che invece si è lasciata trascinare dai demagogici proclami antislamici della destra conservatrice.
Ancora una volta, dunque, appare chiara la spaccatura tra le due Americhe, tra le due forme mentis radicalmente opposte presenti nel territorio degli USA. Da un lato le città della costa, aperte, progressiste e cosmopolite, simboli dell'Occidente e patria del consumismo e della globalizzazione, ma anche della democrazia, della tolleranza e dell'integrazione multietnica. Dall'altra la provincia americana, le regioni dell'interno, sempre più chiuse intorno a coloro che sono considerati gli uomini forti capaci di difendere gli USA: una società impaurita e sulla difensiva, ultimamente rappresentata in maniera ossessiva dalle pellicole di Hollywood a tinte più fosche.
A guidare questa seconda America troviamo fanatici religiosi, liberisti sfrenati (gli stessi che hanno portato alla crisi di oggi, se ci pensiamo, e che ora la cavalcano), i populisti del Tea Party, ovvero dei demagoghi di estrema destra che hanno come programma lo slogan più vecchio del mondo, "no tasse" (e così profanano il mito del vero Tea Party, che invece era un inno all'autodeterminazione e al patriottismo, la consapevolezza che le tasse non devono essere una forma di colonialismo, ma le risorse con cui una comunità provvede a se stessa: no taxation without representation). I prodotti più degenerati, insomma, della democrazia pluralista contemporanea.

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