lunedì 30 agosto 2010

Gli autobus e il mercato in basso Lazio

Treviso, esercizio che vende biglietti del bus

Acquirente: Buongiorno, un biglietto dell'autobus
Negoziante: Un euro, grazie

Latina, esercizio che vende i biglietti del bus

Acquirente: Buongiorno, un biglietto dell'autobus
Negoziante: Lo vuole degli autobus bianchi, azzurri o blu?
Acquirente (sorpreso): Perché, che differenza c'è?
Negoziante: Be', a seconda di quale autobus deve prendere, lei deve comprare un biglietto specifico, se no non la fanno salire

La prima situazione è quella abituale nella maggior parte delle città italiane, dove il passeggero compra un biglietto e con quello può prendere tutti gli autobus e gli altri mezzi dell'azienda comunale o appaltatrice del trasporto pubblico. La seconda situazione, invece, è quella che si riscontra (almeno) in molti comuni del basso Lazio, dove è stato fatto l'esperimento della liberalizzazione di questo servizio.
Accade così che chi compra un biglietto deve sapere già in anticipo che mezzo dovrà prendere e quando lo dovrà prendere per effettuare l'itinerario desiderato, perché, chiaramente, se acquista un biglietto per le linee della compagnia A, allora non potrà usufruire delle linee delle compagnie B e C (che pretendono titoli differenti), con notevole svantaggio per chi non è del luogo e non conosce in anticipo i diversi orari dei concorrenti.
Così è facile che il viaggiatore si ritrovi a terra con in mano un biglietto inutile, mentre davanti gli passano due o tre autobus che vanno nella direzione che gli interessa. In alternativa, chi viaggia e non vuole permettersi ritardo, preferirà avere sempre con sé un biglietto per ogni compagnia, con un conseguente esborso aggiuntivo ingiustificato.
Un regime di tariffe controllate ed un serio contratto di servizio, invece, sarebbero l'alternativa ideale a queste liberalizzazioni che, lungi dal portare vantaggi al consumatore, si rivelano fonte di disservizi anche molto spiacevoli.

domenica 29 agosto 2010

"Il direttore del telegiornale più seguito e più autorevole d'Italia"

"Un intervista con il direttore del telegiornale più seguito e più autorevole d'Italia, il direttore del TG1 Augusto Minzolini". Una perla da non perdere.

Parte prima

Parte seconda

Qui  trovate i veri dati sugli ascolti in picchiata di Minzolini. Le balle dell'intervista, però, si contano a palate.

sabato 28 agosto 2010

Gasparri, don Sciortino e la condotta del clero

Intervistato da Luca Telese su Il Fatto Quotidiano, Gasparri si prodiga in una lista di insinuazioni sulla persona del direttore di Famiglia Cristiana, don Sciortino. Il modello è quello della soffiata più squallida: per ben nove battute l'ex An non pronuncia che epigrammi in cui dice e non dice (ma più che altro non dice) invitando il giornalista a completare le sue allusioni continue. Poi, finalmente, a partire dalla decima domanda si comincia a capire qualcosa, comprendendo che Gasparri ce l'ha con le vacanze del sacerdote a Marettimo (località turistica dove villeggia anche il politico) e con una serie di elementi che gli farebbero pensare che il direttore non sia un vero sacerdote.
Davanti all'incredulo giornalista l'intervistato incalza: don Sciortino alla sera va al bar in bella compagnia e fa bisboccia, non veste mai la talare e beve. Inoltre non ha mai celebrato messa alla chiesa del paese, nonostante gli fosse stato espressamente richiesto da un non meglio determinato turista. Poi, alla domanda se questo non sia un attacco puramente personale, si limita a rispondere che un prete vero si comporta meglio e che quindi loro del PdL non accettano lezioni da Famiglia Cristiana, un giornale cattolico messo da Sciortino contro il governo nonostante la condotta riprovevole del suo direttore.
Vero o false che siano le parole di Gasparri (che non manca dell'autoironia involontaria di definirsi cattolico che giudica da cattolico), ci interessa pochissimo. E ci interessa pochissimo perché da un lato esse dimostrano l'ignoranza grossolana di questo politicuccio in materia ecclesiastica, dall'altro perché, anche se fosse tutto vero ciò che si dice di don Sciortino, non esiste nessuna ragione di scandalo. E vediamo perché.
Sulla veste talare, va fatto intanto notare che non è più obbligatoria da un pezzo. I preti girano in jeans, ormai, e questo per qualunque cattolico sano di zucca che pensa alla sostanza e non alla forma, è una questione che deve lasciare assolutamente indifferenti: ciascuno è libero di vestirsi come vuole, le uniformi sono appannaggio del solo clero regolare (ovvero ordini e congregazioni religiose, sottoposte a una regola), quando la regola lo prevede.
Sul bere, non c'è scritto da nessuna parte che i preti debbano essere astemi (altrimenti l'Eucarestia come la celebrano? Sveglia Gasparri!), ma basta che non cadano nel peccato di gola bevendo troppo e ubriacandosi. Ma Gasparri non ha detto né ha alluso in alcun modo ad un eventuale stato di ebbrezza di don Sciortino, per cui non ci pare che ci sia nulla di scandaloso nella condotta da lui tenuta.
Sulla villeggiatura e sui bar in "bella compagnia" (compagnia femminile? Non si sa) vale lo stesso discorso: non è un monaco, don Sciortino, e non è tenuto a nessun comportamento particolare se non quelli specificamente previsti per i sacerdoti diocesani e quelli che devono rispettare tutti i cattolici, laici o chierici che siano. Dunque esiste l'obbligo di celibato, ma non il divieto di frequentare donne per passare il tempo, senza peccare. Anche se su questo punto si può perdonare Gasparri, visto che il suo signore e padrone Napoleone jr. sembra che la compagnia femminile la selezioni tra altre schiere.
Infine si sfiora il ridicolo quando si fa riferimento alle messe non celebrate nella località di villeggiatura, ignorando, molto probabilmente, che ogni parrocchia è affidata ad un parroco e a quel parroco spetta decidere chi celebra e chi no nella sua o nelle sue chiese e, se lui non vuole, nemmeno se tutti i turisti andassero a supplicare don Sciortino di celebrare lui potrebbe salire sull'altare. Mi sembra chiaro ed evidente ad ogni cattolico che abbia qualcosa a che fare con le messe domenicali. Ma siamo proprio sicuri che Gasparri sia cattolico come farnetica? Io comincio a nutrire i miei dubbi, per le baggianate con cui ha ammorbato quest'intervista.
Chi scrive, si precisa, è cattolico praticante, ma da sempre abbastanza critico nei confronti degli exploit politici delle gerarchie. Non legge Famiglia Cristiana o altre pubblicazioni cattoliche, non fa parte di nessun gruppo ecclesiale, non ha tessere politiche, ma semplicemente si limita a ribellarsi quando il politicante di turno si mette a blaterare di religione quando si comprende chiaramente che con essa ha ben poco a che fare.
Gasparri, per prima cosa, dovrebbe chiedere scusa con tutti i veri credenti cattolici per le bestialità al limite del blasfemo che ha pronunciato e per l'aver professato una fede che chiaramente non gli appartiene, fino a prova contraria.

mercoledì 25 agosto 2010

Gli illuministi e l'istruzione delle masse

Una breve rassegna di frasi, citate in Ariès, 1960-1975 (in Italia Padri e Figli nell'Europa medievale e moderna, Laterza), su come gli illuministi intendessero il traghettamento delle folle fuori dall'ignoranza e dalla superstizione, uno stimolo per capire che non sempre chi si spaccia per illuminato e razionale desidera davvero che anche gli altri possano raggiungere questo traguardo. Una piccola testimonianza per capire che anche la Ragione, come tutte le altre cose, può legittimare qualsiasi cosa, anche la più ridicola.



Le Chalotais (Essai d'éducation nationale, 1763)

Non ci sono forse troppi scrivani [maestri-scrivani, che tengono scuola], troppe accademie, troppi collegi? Un tempo era difficile sapere per mancanza di libri. Ora è l'abbondanza di libri a impedire di sapere... Mai ci sono stati tanti studenti in un Regno in cui la gente lamenta la denatalità [in realtà la popolazione, lungi dal diminuire, aumentava]. Anche il popolo vuole studiare; agricoltori, artigiani mandano i figli nei collegi delle piccole città dove la vita costa poco, e quando hanno fatto cattivi studi, imparano il disprezzo per la professione paterna, si buttano ai chiostri. allo stato ecclesiastico; si impegano nei tribunali.

I Fratelli della Dottrina Cristiana (che si dicono Ignorantelli) sono venuti fuori per finire di rovinare tutto. Insegnano a leggere e scrivere a persone che avrebbero dovuto solo imparare a disegnare e a maneggiare pialla e lima, ma che non vogliono più saperne. Sono rivali e successori dei Gesuiti. Per il bene della società, le cognizioni del popolo non devono andare oltre i suoi mestieri.



Voltaire


[In risposta a qui sopra]
Vi ringrazio per aver condannato lo studio nei lavoratori agricoli. Io che coltivo la terra mi rivolgo a voi per avere dei lavoratori, non dei chierici tonsurati.
E' opportuno che il popolo sia guidato, non istruito. Non ne è degno. [19/3/1766]

Mi pare necessario che ci siano dei pezzenti ignoranti. [1/4/1766]


Verlac, 1759

Le capanne, i gruppi casolari, i borghi, i villaggi, nei due mesi di vacanza risuonano solo di questo grido: mandate i vostri figli in collegio.

[Come arginare] questo torrente educativo che sommerge tante capanne, che spopola tante campagne, che produce tanti ciarlatani, tanti intriganti, invidiosi, fanatici e scontenti di ogni genere; che semina confusione in tutti i ceti?

martedì 24 agosto 2010

I treni locali e il mercato in Puglia. Una piccola verifica

Invito tutti a fare un piccolo esperimento. Andate nel sito delle Ferrovie, ferroviedellostato.it, nella sezione orari e acquisto. Lì troverete dei campi da riempire con data di partenza, luogo da cui volete partire e destinazione: scegliete la data di domani, inserite nel primo campo Bari, nel secondo Lecce, e attendete i risultati. Per restringere la ricerca, magari dite che volete partire alle 14.00, così che avrete tutti i treni in servizio pomeridiano.
Vediamo quindi cosa esce. Osserveremo che il numero di treni regionali tra le 14.30 e le 22.30 è di quattro (16.00, 16.40, 17.50, 20.27), pessimamente distribuiti nel tempo e tutti adibiti anche a servizio urbano all'interno del capoluogo pugliese. Così il treno delle sei meno dieci per fare i centocinquanta chilometri richiesti impiega due ore, mentre quello delle otto e 27 ce ne impiega quasi due e mezzo. Il costo della corsa è di € 8,60.
Tuttavia non sono questi gli unici treni a garantire il servizio su questa tratta, mentre, al contrario, le altre categorie di convogli sono anche più frequenti: 2 Intercity, 3 Eurostar-City, 2 Eurostar e 4 Acquario, per un totale di 11 treni. Gli IC hanno una tariffa di 13,50 Euro, gli ES-City e gli Acquario di 16,00, gli ES di 18,00. Ma che cosa sono esattamente gli Acquario e perché hanno i costi da Eurostas City se offrono un servizio che a quanto mi risulta è limitato a questa tratta e a quella Andria-Bari ed è più lento di quello dei treni di lunga percorrenza (dato che le fermate intermedie, se vediamo, sono 3 e non una sola)?
Acquario è un consorzio tra le Ferrovie e Ferrotranviaria, l'operatore di trasporto dell'hinterland barese, che non è, come Trenitalia, convenzionato con le regioni e che il servizio che offre lo propone a prezzo di mercato. Ma dato che la concorrenza è data unicamente da uno dei membri del suddetto consorzio, possiamo dire che il servizio è offerto a prezzo di mercato monopolistico.
Dunque i Treni Acquario, con le loro tariffe più care, hanno già raggiunto la frequenza dei regionali nella fascia oraria pomeridiana, mentre sono praticamente inesistenti nella fascia mattutina, quando tutto il traffico è preso in carico dalla vecchia rete regionale, nella prima fase perché i pendolari devono godere del trasporto a prezzo minore, nella seconda perché a metà mattinata i treni, poco affollati, sono anche poco redditizi. Nella fascia pomeridiana, invece, gli introiti sono più appetibili e qui Trenitalia ha scelto di operare in condizioni di libero mercato, ovvero traendo il massimo profitto dalla propria attività, a scapito dell'utenza.
Va aggiunto che, oltre al maggior costo del viaggio (quasi il doppio), il passeggerodeve sopportare anche l'obbligo di prenotazione, inesistente sui regionali, e che pone a carico di chi perde il treno prescelto una serie di inconvenienti come il cambio di prenotazione, che si ottiene solo dopo estenuanti code nelle biglietterie. Al contrario, è liberato dal ridicolo onere dell'obliterazione e si vede garantito un posto a sedere in una tratta ben scarsamente usufruita.
E' un passo ulteriore nell'abbandono da parte delle Ferrovie di questa parte d'Italia, la cui provincia e il cui interno erano già stati interamente demandati al servizio di un'inefficientissima rete locale (le Ferrovie sud-est), ma che ora sta subendo anche il disimpegno sulla tratta adriatica (pressoché l'unica su cui operano le FFSS) a vantaggio di un'ottica puramente lucrativa.

sabato 21 agosto 2010

Comunione e Disperazione alla conquista del mondo

Il peso di CL nella vita pubblica del nostro paese cresce continuamente di anno in anno e più nulla sembra essere in grado di opporsi al suo potere bulimico che riesce a fondere al proprio interno religiosità ed economia, vita privata e politica. Comunione e Liberazione non è un semplice movimento cattolico, ma è un parastato che fornisce istruzione, sanità, forme di aggregazione per i giovani e le famiglie, assistenza agli anziani e aiuti per il collocamento, godendo di una fitta rete di sostenitori e finanziatori ad ogni livello, sia esso politico, economico o ecclesiastico.
In Lombardia è in corso la sua colonizzazione del territorio, con l'occupazione delle parrocchie con preti associati, la creazione di una fitta rete territoriale di aderenti e l'ingresso in politica di iscritti e simpatizzanti, alcuni dei quali divenuti potentissimi sulla scena locale, come il presidente della Lombardia Roberto Formigoni. E in quella regione appare CL, ancor più della Lega che pure è ben radicata nelle valli, la forza dominante: non a caso l'amministrazione, nonostante la contrarietà del Carroccio, ha già fornito un ingente sostegno economico al Meeting ciellino di Rimini, in corso adesso.
Il Meeting è il momento in cui CL si conta e mostra al mondo tutto il proprio splendore: folle di partecipanti, laici e religiosi, gente comune e magnati, politici di ogni schieramento. Il peso di Comunione e Liberazione è lampante in questi giorni, dove la politica dimostra tutta la propria sudditanza a questa parte della Chiesa, la parte più ricca e influente: così centrodestra e centrosinistra, intellettuali di matrice trasversale, perfino atei si contendono la partecipazione al grande raduno, che casualmente si pone nel periodo in cui iniziano le feste di partito, in una sorta di rivendicazione di primogenitura. I partiti che sono con il cattolicesimo - sembrano dire - sono con noi, checché diranno poi i loro militanti.
Ma il peso politico è associato ad un forte peso economico: la Compagnia delle Opere, il braccio operativo di CL, che investe, costruisce e fa affari, ha tessuto la propria rete in ogni angolo di Italia, coinvolgendo esponenti politici sia di destra che di sinistra, in operazioni spesso poco trasparenti (ricordando le inchieste campane e calabresi in questione). Si ha così il terzo lato del triangolo religioso-politico-economico che fa la forza di Comunione e Disperazione, facendo dubitare che effettivamente il movimento sia - come si autoproclama - un mezzo per introdurre Cristo (né politico, né affarista) nella vita pubblica nazionale.

giovedì 19 agosto 2010

Il vegetarismo salverà il pianeta? Forse no

In ambito ambientalista si sta sempre più rafforzando la corrente animalista, ovvero quella che vede come priorità non tanto la salvaguardia dell'ecosistema nel suo complesso, quanto la tutela delle specie animali (nei casi migliori) o la tutela dei singoli individui appartenenti alle specie animali (nei casi più frequenti). Animalismo, per esempio, è quel movimento che vuole estendere molti diritti umani alle scimmie superiori (e perché no agli scarafaggi?), oppure quello che ha protestato quando, per salvaguardare l'equilibrio tra erbivori e vegetali nei boschi italiani ormai svuotati di tutti i predatori naturali, si sono aperte battute di caccia straordinarie per eliminare gli erbivori in eccesso, che stavano pian piano distruggendo il patrimonio forestale (già in pericolo) della Penisola.
Tutto ciò dimostra che spesso le istanze ambientaliste e quelle animaliste sono in contrapposizione tra loro, come spesso sono in contrapposizione le stesse esigenze dell'ambiente al proprio interno (per esempio, la questione delle pale eoliche, che rovinano il paesaggio, ma riducono l'inquinamento). Tuttavia recentemente la questione è stata riaperta da una frangia particolare di animalisti, i vegetariani, ovvero coloro che non mangiano carne. Esistono poi coloro che non mangiano proprio nessun prodotto di origine animale (come latte e uova), i cosiddetti vegani.

Il 21 agosto è un giorno particolarissimo per il nostro intero pianeta, sebbene nessuno si stia preparando per farlo risaltare con grandi eventi, manifestazioni o memoriali: quel giorno l'umanità avrà consumato, a partire dal 1° gennaio, tutte le risorse che la Terra è in grado di produrre in 365 giorni. Ovvero, in otto mesi abbiamo speso ciò che si produce in dodici. La vita tuttavia continuerà e saremo costretti, nei mesi successivi, ad impiegare risorse che non saranno rinnovate, in un depauperamento progressivo.
Si tratta, naturalmente, di una media, dato che alcune delle risorse (come gli idrocarburi) non sono rinnovabili di per sé, mentre altre (come il sale) sono gratuite e sempre disponibili ampiamente. Esistono, però, altre risorse che si collocano in una via di mezzo tra questi due estremi, come l'acqua potabile, le risorse agricole, i pascoli, gli allevamenti, il pescato, l'estrazione di legno e tanto altro ancora, che la Terra è in grado di rinnovare solo un tanto all'anno, soglia sopra la quale le sue capacità rigenerative vengono meno.
Per fare degli esempi pratici, diremo che i pesci del mare sono pescati ben sopra la loro capacità di riprodursi tra una pesca e l'altra, così che il loro numero declina. Così anche i terreni agricoli, ipersfruttati, perdono la propria fertilità costringendo chi li coltiva a ricorrere a dosi sempre maggiori di concimi. Le foreste arretrano ovunque siano sfruttate sistematicamente per il legnamo, ma anche dove devono lasciar posto a campi e pascoli. L'acqua è sprecata in tutto il mondo ricco, ugualmente, che adesso sta ricorrendo abbondantemente alle falde fossili, ovvero quei giacimenti creatisi tanti millenni fa e che non sono più approvigionati dalle piogge.
E' uno scenario fosco, dovuto in gran parte allo stile di vita di noi residenti nei paesi ricchi: servirebbero le risorse di un pianeta e mezzo per accontentarci tutti, ma di mondo ne abbiamo uno solo e anche in rapido depauperamento. Se, poi, tutti dovessero godere dello stile di vita statunitense, di mondi ne servirebbero cinque...
Così i più illuminati (i più se ne infischiano, invece) pensano a strategie per invertire la tendenza, promuovendo la cosiddetta decrescita, ovvero la riduzione del nostro impatto sull'ecosistema. Riciclaggio, energie rinnovabili, riduzione degli imballaggi e dei consumi in generale sono ricette utilissime. Così come sarebbe anche buona cosa la riduzione del consumo di carne, soprattutto del manzo, che richiede enormi dosi di mangime per produrre molto meno nutrimento. Gli allevamenti, infatti, sono vere e proprie macchine per lo spreco di calorie, visto che per produrre un chilo di carne di manzo servono sei chili di mangimi (ricavati da cereali), con uno spreco dovuto al fatto che non tutto il cibo mangiato dal capo di bestiame si "trasforma" in carne, ma in gran parte è speso per la sua attività biologica.

I vegetariani sono convinti che gran parte del nostro peso sull'ambiente sarebbe ridotto semplicemente smettendo di consumare carne, perché ciò diminuirebbe l'uso di terreno agricolo a vantaggio degli ambienti naturali (la maggior parte delle terre coltivate sono sfruttate per allevare animali) e si potrebbero sfamare molte più persone con una produzione agricola molto minore. Posizione che dai vegani è stata portata alle estreme conseguenze, incontrando il favore di molti ambientalisti. Posizione che, però, deve essere sottoposta ad una seria analisi critica.
Prima di tutto, si devono verificare le conseguenze sull'organismo umano del regime alimentare dei vegani. Sui bambini e sugli adolescenti una dieta priva di carne, uova e latticini ha effetti deleteri sulla crescita, può provocare scompensi di sostanze fondamentali (come il calcio) e favorisce il rachitismo. La loro dieta difetterebbe, infatti, delle cosiddette proteine nobili, quelle che in quantità minore nutrono maggiormente l'organismo. Per rimediare, si è costretti ad un maggiore consumo di legumi, con proteine di più difficile assorbimento, e con i conseguenti problemi intestinali, reposnsabili di carenze nell'assimilazione del ferro e di altri nutrienti. Insomma, una vita da vegano fin da bambini è a ben vedere sconsigliabile per motivi di salute. E' valido anche l'interrogativo sull'accettazione da parte di questa corrente dei vestiti di lana e, in caso contrario, se sia davvero una buona idea sostituirli con la fibra sintetica ricavata dal petrolio.
Una dieta vegetariana, al contrario, non incontra questi ostacoli: i nutrienti di origine animale arrivano all'organismo grazie a latticini e uova e l'alimentazione appare ben bilanciata. Si può dire, dunque, che dal punto di vista alimentare è meglio essere vegetariani che accaniti mangiatori di carne. Resta da valutare il beneficio ambientale della scelta, ovvero se sia davvero necessario rinunciare totalmente alla carne e se ciò effettivamente ha le conseguenze benefiche sperate sull'ambiente.
Per prima cosa va rilevato che il vegetarismo non elimina l'esistenza dell'allevamento, ma, semmai, riduce l'ampiezza del fenomeno. Inoltre va notato che solo metà degli animali che nascono sono utili alla dieta vegetariana, ovvero le femmine che producono uova e latte. I maschi, invece, sono completamente inutili e, in quest'ottica, dovrebbero essere abbattuti in massa appena nati con pochissime eccezioni: una soluzione che farebbe inorridire ogni animalista, si suppone, ma che sarebbe necessaria per non allevare animali assolutamente inutili e che consumerebbero preziose risorse ambientali.
Esiste anche il problema del contenimento del numero dei capi: in un allevamento il bestiame, non soggetto all'aggressione dei predatori, si moltiplica senza freno e tende naturalmente a crescere di numero. Così, pena il dover far crescere esponenzialmente l'attività oltre la domanda di alimenti, si devono per forza abbattere regolarmente alcuni capi. La differenza sta in quali capi abbattere, se i neonati (in un'ottica vegetariana: si conservano solo quelli adatti a far latte e gli altri si buttano), oppure se quelli maturi, da cui si può ricavare carne da rivendere al mercato. La carne ottenuta è poca, ovviamente, ma o la si mangia o la si butta. Appare dunque molto più razionale mangiare poca carne per assorbire quella che fisiologicamente si ottiene dagli allevamenti (si pensi anche alla produzione dei pellami), che uccidere animali per buttare in discarica le loro parti migliori.
Infine occorre fare un ragionamento sul diverso impatto ambientale tra agricoltura e allevamento, non nell'ottica occidentalocentrica degli animalisti, ma con uno sguardo più globale sul problema. Si deve infatti riconoscere che l'allevamento in stalle e la nutrizione con farine di cereali è una novità importata dall'Europa settentrionale e dagli USA per la gran parte delle zone del mondo, incluse molte regioni italiane.
Altrove l'allevamento ha riguardato le terre incolte e lasciate a riposo, contribuendo con gli escrementi del bestiame alla fertilizzazione dei pascoli impiegati, con un impatto ambientale ridotto dal fatto che, nel caso delle terre a riposo, si tratta comunque di ettari già strappati alla natura e destinati alla coltivazione nell'annata successiva, mentre nelle terre incolte dal freno che la pastorizia pone all'allargamento dei terreni occupati e consumati dall'agricoltura.
Esistono aree del mondo in cui il passaggio dall'allevamento all'agricoltura, dalla dieta basata sui prodotti animali a quella vegetariana, sarebbe del resto costosissimo dal punto di vista ambientale. Parliamo delle steppe e delle aree semidesertiche, dove si è assistito al disastro ecologico della desertificazione quando i governi sovietici e cinesi in Asia e degli stati del Sahel in Africa hanno provato a favorire la sedentarizzazione delle popolazioni nomadi che vivevano di allevamento mediante la loro conversione all'agricoltura: i terreni inadatti si sono esauriti rapidamente e grandissime aree di terreno sono state occupate da polvere e sabbia, il deserto che avanzava.
Alla luce di tutto ciò, se senza dubbio la riduzione del consumo di carne (soprattutto nei paesi ricchi) sarebbe un toccasana, il vegetarismo di massa si rivelerebbe tutto fuorché la panacea.

martedì 17 agosto 2010

Grillo e Berlusconi, creature affini?

Berlusconi (alias Napoleone jr, alias Cesare) è stato l'archetipo a cui più volte gran parte dei commentatori hanno associato Beppe Grillo ed il movimento da lui fondato. In particolar modo è stato rimproverato, Grillo, di stare cavalcando, dall'altra parte della barricata, lo stesso populismo anti-partitico e anti-sistemico cavalcato sempre fino ad ora da Napoleone jr., in una versione, anzi, rinnovata e potenziata. Poi si dice che Grillo, come dall'altra parte la Lega e Berlusconi, stia cavalcando la demagogia di sinistra, contro la demagogia di destra da loro rappresentata. Prima di dare ragione o torto a questa tesi vanno evidenziate, però, anche le differenze tra i due fenomeni, quello grillino e quello berlusconiano (e poi anche leghista).
Prima di tutto il modo in cui i tre movimenti sono sorti e le basi del loro consenso iniziale. Forza Italia è nata dopo la dissoluzione del vecchio Pentapartito, in circostanze a dir poco oscure (le inchieste siciliane lo confermano), e con la volontà di riempire il vuoto di potere creatosi. Ha quindi ereditato il bacino del PSI, come anche molti voti di ex democristiani e laici minori. Quindi vediamo un'inesistente base territoriale per un partito sorto dall'alto, come erede di altri partiti.
La Lega, invece, sorse molto prima come movimento di protesta campanilista, in aperto antagonismo rispetto al Pentapartito e con convergenze, al contrario, con l'opposizione di sinistra. Si è sviluppato prima a livello locale e solo dopo ha visto il salto di qualità su scala nazionale, così che ha una sua roccaforte di voti (inizialmente la pedemontana settentrionale, poi con infiltrazioni, più blande, nelle città padane) ed una sua area di riferimento, che poi ha compreso i transughi della morente DC del Nord Est.
Infine Grillo, nato come un moto di protesta interno al centrosinistra, deluso dal governo Prodi e, soprattutto, dalla sua componente centrista e mastelliana in primis. E' nato come moto di protesta, appunto, con dei propositi puramente negativi (no alla partitocrazia, no allo spoil system, no alla politica corrotta e spendacciona), sulla scia di successi editoriali come il libro di Stella, ma poi ha fatto proprio un programma indicativamente di sinistra ecologista, con predominanza dei temi ambientali e di riforma strutturale della concezione economica. Non ha un territorio di nascita, e qui assomiglia a FI più che alla Lega, ma il suo bacino di voti non è il vuoto lasciato da forze poi implose, ma una forma di dissidio interno al centrosinistra, con ammiccamenti al mondo dell'astensionismo deluso.
Poi c'è il rifiuto della forma partitica, che diverge dal medesimo rifiuto come è stato inteso da Berlusconi. In FI e, poi, nel PdL, la demolizione delle istituzioni dei partiti è passato tramite la creazione di un'istituzione personalistica, l'eliminazione dei congressi e della democrazia interna, la scelta dei candidati e dei dirigenti con metodi aziendali (in primis la chiamata diretta da parte del leader) e lo scarso utilizzo della base come macchina elettorale (preferenza del mezzo mass-mediatico).
La lega, al contrario, è più legata ad un'idea federale di partito, retaggio della sua storia: partitelli locali si sono uniti tra loro per dar vita al nuovo soggetto politico, sempre a guida carismatica e personalista a livello centrale, ma che gode di una buona indipendenza a livello locale (sebbene le scelte principali subiscano il peso di Bossi in modo spesso non percepito dall'opinione pubblica).
Grillo, invece, esegue un reclutamento su base dei programmi, per mezzo di associazioni spontanee di volontari che, da rappresentati della società civile, si sono trasformate in macchine elettorali per l'elezione di candidati indipendente ideologicamente affini. Inoltre, sebbene le scelte principali dell'organizzazione (che sembra più un marchio che una struttura) siano state fatte dalla persona del leader, tuttavia la fase operativa e le decisioni locali sono sempre state demandate alla periferia.
Infine passiamo a vedere il ruolo del leader nelle tre formazioni. Berlusconi, presidente a vita del PdL per statuto e candidato unico intorno al quale è organizzato tutto, è il fondamento ed il fine del suo partito, più emanazione della sua persona che entità da lui indipendente: tutto è in sua funzione e lui ha il potere di fare tutto, in un'ottica antidemocratica e aziendale (partito proprietà privata).
Bossi, invece, funge più da collante che da vero organizzatore unico (esiste una fitta schiera di colonnelli, infatti, attorno a lui), sebbene sia la testa indiscussa, il capo carismatico assoluto della Lega. A differenza del berlusconismo, il leghismo può anche sopravvivere al proprio leader grazie ad un programma (il PdL non ne ha uno, ha prodotto unicamente promesse elettorali eterogenee e disorganiche) populista e popolare nelle regioni del Nord: seguire gli istinti più bassi della gente per rincorrere il suo consenso. Ma forse i leghisti sono molto meno scaltri e semplciemente si limitano a dire ciò che pensano, collocandosi dunque nella parte peggiore della popolazione italiana settentrionale.
Grillo, infine, non ricopre incarichi né è candidato o destinato ad essere candidato. Il suo ruolo è solo quello di guida, di ideologo dei suoi movimenti, seppure dotato di un enorme carisma che gli permette di fatto di controllare il movimento anche senza alcuna carica ufficiale. Il collante che offre sono le sue idee, condivise da tutti i militanti e portate avanti dalle liste locali. Molto distante, dunque, dal modello aziendale-autocratico berlusconiano e anche da quello carismatico-gerarchizzato leghista.
Detto ciò, appare quindi senz'altro improprio il paragone tra Grillo e Berlusconi, sebbene esso sia molto gettonato dai commentatori. Effettivamente, però, il movimento grillino ha tratti demagogici, soprattutto nella sua parte antipolitica dura e pura (quella che l'ha portato a scontrarsi perfino con gente fino a poco prima sostenuta, come Sonia Alfano) e questo particolare dovrebbe avere il potere di far riflettere la sinistra italiana: è in grado di creare un'espressione politica delle istanze portate avanti antipoliticamente dai grillini?

domenica 15 agosto 2010

Le due americhe intorno a Ground Zero

La polemica negli USA a proposito della costruzione di una moschea nuova nell'area di Lower Manahttan, a due isolati di distanza dal cratere degli attentati del 2001 al World Trade Center, ha spinto il presidente Obama a prendere una posizione forte sul tema, nonostante i consulenti gli suggerissero circospezione e prudenza per non dare il colpo di grazia alla sua già fin troppo minata popolarità.
Così a pochi mesi dall'appuntamento elettorale di Novembre, quando alle elezioni di metà mandato si prevede una sconfitta epocale per i Democratici, il politico ha pronunciato un discorso netto per toni e contenuti su cosa è l'America e che cosa non deve diventare. Un discorso che si richiama ai fondamenti del costituzionalismo statunitense (materia da lui insegnata in passato), a quel cruciale Virginian Act, col quale fu proclamata inderogabilmente la piena libertà di religione e culto per tutti gli Americani, alla dichiarazione di Thomas Jefferson sulla libertà, alla necessità che ogni uomo possa portare avanti ragionevolmente le proprie convinzioni. Poi Obama ha ricordato con orgoglio il successo del melting pot americano, in cui hanno convissuto pacificamente etnie e religioni che altrove si sono combattute, ha fatto l'elogio della religiosità nazionale, perché tutti siamo figli di Dio (ritornello presentissimo nella tradizione retorica USA: in God we trust) e ha detto che questa è la vera America, non quella chiusa e intollerante che alcuni vorrebbero forgiare.
Purtroppo per il bel discorso (molto americano, ma dell'americanità migliore, quella gelosamente aperta e testardamente libera), gli Americani non sembrano condividere la stessa apertura del loro presidente, dichiarandosi per oltre l'ottanta per cento contrari all'apertura di questo luogo di culto, per loro simbolo quasi di una vittoria dell'Islam contro li USA, di una religione monoliticamente fondamentalista che ha colpito e ora incassa il premio, invece della punizione. E poi c'è il sentimentalismo di tutta quella parte dell'opinione pubblica che associa la moschea al terrorismo e ritiene un'offesa alle vittime osannare a Ground Zero una divinità nel cui nome sono stati fatti tremila morti statunitensi.
Appare quindi un paese spaccato tra la classe dirigente (il Presidente, il sindato Bloomberg, l'élite più aperta) e la stragrande maggioranza della gente comune, guidata dalla destra repubblicana, quella che afferma di essere l'America patriottica capace di battersi contro tutti i nemici, interni ed esterni. Questo è ciò che appare, e che alla destra repubblicana piace che appaia. Tuttavia, andando a guardare più da vicino, esaminando i numeri dei sondaggi in questi giorni sbandierati, ci accorgiamo che, in realtà, le due americhe sono molto diversamente distribuite.
Nella prima troviamo l'élite di cui abbiamo parlato, che cerca di essere fedele agli ideali costituzionali messi a durissima prova dall'amministrazione "patriottica" repubblicana (il Patriot Act dovrebbe essere un simbolo di ciò). Si tratta di una minoranza in tutta la nazione, dominata dalla contrarietà alla moschea, ma è una minoranza molto più consistente proprio a New York, il teatro della vicenda.
Nella megalopoli, infatti, i contrari alla moschea sono "solo" il 54% degli intervistati dalla Cnn, mentre a favore è il 34% circa. Gli altri astenuti. Quindi la città che ha sofferto e si è vista infliggere la profondissima ferita dell'11/9 ha dimostrato di essere capace di reagire positivamente, arroccandosi molto meno del resto degli USA nella generalizzazione patriottardo-reazionaria dei repubblicani. E, similmente, spaccato è anche il fronte dei parenti delle vittime degli attentati, che, a differenza di come li dipinge la coalizione anti-moschea, non considera l'apertura del luogo di culto un terribile gesto nei loro confronti. Quindi perfino i newyorkesi più colpiti tra tutti i newyorkesi sono riusciti ad affrontare lo shock meglio del resto dell'America, che invece si è lasciata trascinare dai demagogici proclami antislamici della destra conservatrice.
Ancora una volta, dunque, appare chiara la spaccatura tra le due Americhe, tra le due forme mentis radicalmente opposte presenti nel territorio degli USA. Da un lato le città della costa, aperte, progressiste e cosmopolite, simboli dell'Occidente e patria del consumismo e della globalizzazione, ma anche della democrazia, della tolleranza e dell'integrazione multietnica. Dall'altra la provincia americana, le regioni dell'interno, sempre più chiuse intorno a coloro che sono considerati gli uomini forti capaci di difendere gli USA: una società impaurita e sulla difensiva, ultimamente rappresentata in maniera ossessiva dalle pellicole di Hollywood a tinte più fosche.
A guidare questa seconda America troviamo fanatici religiosi, liberisti sfrenati (gli stessi che hanno portato alla crisi di oggi, se ci pensiamo, e che ora la cavalcano), i populisti del Tea Party, ovvero dei demagoghi di estrema destra che hanno come programma lo slogan più vecchio del mondo, "no tasse" (e così profanano il mito del vero Tea Party, che invece era un inno all'autodeterminazione e al patriottismo, la consapevolezza che le tasse non devono essere una forma di colonialismo, ma le risorse con cui una comunità provvede a se stessa: no taxation without representation). I prodotti più degenerati, insomma, della democrazia pluralista contemporanea.

venerdì 13 agosto 2010

L'età per la comunione

Nella Chiesa si è aperto il dibattito sull’età della Prima Comunione, all’epoca di Pio X fissata intorno ai sette anni, età che poi, spesso e volentieri, si è alzata nella prassi delle parrocchie, vuoi per carenza di bambini, vuoi perché i parroci ritengono che per un Sacramento così importante serva almeno l’aver raggiunto l’età della ragione, anche perché prima della comunione c’è la confessione e un bambino troppo piccolo, che non ha ben chiara la distinzione tra bene e male, rischia di essere soprattutto inadatto a questo secondo sacramento. Così ci sono cattolici dalla nascita come chi scrive che la prima comunione l’hanno ricevuta a dieci anni, invece che a sette come sarebbe consigliato.
Il cardinal Canizares ha di recente lanciato l’idea di un abbassamento di quest’età prescritta, suscitando reazioni molto diversificate tra loro. Il suo ragionamento si basa su due presupposti, il primo è che la comunione la si debba ricevere una volta raggiunta l’età adatta a comprenderla, la seconda è che il sacramento sarebbe utilissimo a immettere un po’ di Cristianesimo nella vita odierna dei più piccoli, esposti unicamente alle idee contemporanee del relativismo e del consumismo. Si dice, infatti, che i bambini di oggi sarebbero più precoci di quelli di ieri e in grado già molto prima di comprendere la valenza di ciò che vivono.
Si tralascerà il ritornello della lotta al relativismo, visto che ha già fatto scrivere a sufficienza, mentre è interessante questa percezione della comunione come una diga a difesa della cristianità dei più piccoli, vedendo nella ritualità e nel simbolo la forza in grado di attirare le coscienze, oltre al confidare nella potenza spirituale dell’ostia consacrata. Una posizione che sa a molti, non a torto, di poco realista.
Prima di tutto, confidare nella forza dell’Eucarestia è abbastanza puerile e anche paganeggiante: non è nell’oggetto, teologicamente, il potere salvifico, ma è in ciò che l’oggetto commemora e ricorda, simboleggiandolo (nel senso letterale del termine, ovvero facendo da calco). Quindi se si crede che in una mente dominata da tutti altri pensieri basti un’ostia consacrata per provocare conversioni miracolose, allora tanto vale ricorrere all’aiuto di Wanna Marchi e del suo sale.
In secondo luogo, la precocità dei bambini di oggi è tutta da dimostrare. Perché una persona di sei anni di adesso sarebbe più in grado di comprendere la comunione di una di cento anni fa? Forse si tratta di una miopia dovuta alla maggiore esposizione dei più piccoli oggi alle nuove tecnologie, che richiedono grandi riflessi e velocità nelle scelte, ma che dall’altro lato inibiscono le capacità riflessive e contemplative, tanto è vero che uno dei maggiori problemi negli scolari è il deficit di attenzione, che impedisce loro di stare concentrati molto e per molto tempo, essendo invece abituati ai tempi televisivi o dei computer. Ma forse sono proprio le capacità ora in declino ad essere quelle che servono per comprendere la comunione, che è un momento di raccoglimento e di contemplazione, non uno spot pubblicitario o un menù a tendina.
Infine c’è un terzo motivo, molto più pragmatico e opportunista, per dubitare della bontà della scelta: l’unica esposizione dei bambini alle idee cristiane, ormai, è il catechismo. Viviamo, infatti, in una società profondamente secolarizzata che non ritiene nemmeno più la fede un fatto domestico, ma proprio la relega all’intimità dell’anima. Non mancano certo i proclami televisivi delle gerarchie ecclesiastiche che, anzi, appaiono ogni giorno di più sul video di cui monopolizzano di fato gli spazi, ma, a guardare bene, ciò che loro fanno e affermano quando sono sullo schermo non è lontanamente definibile prova di fede. Perlopiù, infatti, fanno considerazioni politiche, su quali leggi sono da votare e quali no, oppure stanno lì a denunciare il laicismo e il relativismo, la crisi del Cristianesimo in Europa, la secolarizzazione e tutto il resto. Se parlano di idee, lo fanno per bocca di ateo-clericali che sono fermamente convinti che il nucleo della fede cattolica siano le questioni dell’omosessualità e del fine-vita, mascherando scelte dogmatiche con presunte basi (ir)razionali. Ciò che non esiste, invece, è il messaggio cristiano vero, annegato tra la TV commerciale e lo shopping.
Desiderio della Chiesa, dunque, dovrebbe essere il prolungamento della catechesi ben oltre i termini attualmente in uso(si sa, dopo la Cresima tutti spariscono dalla parrocchia…), dunque alzando l'età dei sacramenti e costringendo chi davvero ci tiene a qualche anno in più di formazione (magari più seria dell'attuale) per far diventare davvero il Cristianesimo un’idea circolante nella società. Purtroppo, però, questo non piace e, anzi, sembra temuto, forse perché si ha paura che, una volta che essere cattolici sarà divenuto finalmente un contenuto e non un’etichetta vuota all’interno, allora forse la pura statistica comincerà ad essere meno generosa verso la Chiesa Cattolica, che perderà in quantità ciò che avrà guadagnato in qualità. Sarà più complicato per i prelati andare insieme agli atei-devoti, gente come Marcello Pera che afferma chiaramente che il Cristianesimo, per lui, è solo una bugia ottima per dare alle masse un’identità e dominarle.
Ma quella che porta alla salvezza è la via larga o la porta stretta?

mercoledì 11 agosto 2010

Chicco Testa e il mago dei numeri

Chicco Testa, compreso che minacciare in diretta Mario Tozzi di spaccargli la faccia non è un argomento persuasivo in uno Stato non fascista, ha scritto un articolo su Il Riformista a proposito dell energia nucleare, pubblicando per la prima volta in vita sua qualche cifra a sostegno delle sue opinioni. Non si può che essere contenti di questa conversione improvvisa di Testa dal mondo delle chiacchiere al mondo dei numeri, ma, a causa del suo essere nuovo alle argomentazioni non sofistiche (o presuntamente non sofistiche), dobbiamo aiutarlo a crescere in qeust'arte correggendo il suo bello scritto.
I primi numeri che cita, intanto, sono corretti, ma non dimostrano ciò che lui vorrebbe che dimostrassero. Infatti è vero che la produzione di energia nucleare è cresciuta, ma non è sostanzialmente cresciuto, invece, il numero dei reattori esistenti, come dimostra questo documento dell'ufficio federale dell'energia svizzero (paese nuclearizzato). Documento che inoltre riferisce che l'AIEA prevede un incremento nei prossimi anni dell'uso di questa fonte in Oriente (paesi in via di sviluppo, PVS), ma un decremento nell'Europa Occidentale, il cosiddetto mondo ricco. L'Italia, ovviamente, si tira fuori dal contesto europeo per inserirsi in quello dei PVS, ma questo Testa non lo dice.
Poi Testa ammette: in effetti se in termini assoluti la quantità di energia è aumentata (perché i vecchi reattori meno potenti sono dismessi, mentre i nuovi fatto sono, ovviamente, più potenti), in termini relativi è in netto calo. Bravo Testa, hai scoperto quello che altri dicevano da anni! Il nuclearista, tuttavia, recupera specificando che comunque la maggior parte dell'energia prodotta per coprire l'incremento della domanda globale è di origine fossile, quindi inquinante, mentre l'incremento delle energie rinnovabili sarebbe trascurabile.
Si tratta di una statistica viziata da alcuni dati che Testa ignora o fa finta di ignorare. Gran parte dell'aumento della domanda di energia è legato alla crescita dei PVS, come la Cina e l'India, i quali non sono certo modelli di crescita industriale sostenibile ed ecocompatibile. Invece, spostandoci nel mondo occidentale, nei paesi che ci piace definire civili, nelle conversazioni da bar, allora troviamo il Portogallo che in cinque anni (2005-2010) ha portato la quota di elettricità prodotta con fonti rinnovabili dal 17% al 45%, cifra destinata a salire fino al 60% nel 2020. Ora sta a noi decidere se, come Chicco Testa, vogliamo seguire il modello di sviluppo cinese, oppure se vogliamo accodarci ai paesi europei su un'altra strada, magari più lodevole.
Poi si cita il famoso rapporto del MIT che ho riportato, affermando che il nucleare serve per combattere il riscaldamento globale. Scopriamo adesso che dobbiamo essere così terrorizzati dal riscaldamento globale da essere disposti a farci sommergere da scorie radioattive (il problema delle scorie Testa non lo cita: vade retro!) e dover sopportare fughe di materiale pericolosissimo periodicamente. Quando si parla di posizioni ragionate...
Infine si sdrammatizza: Chernobyl non è stato un incidente grave come si dice. E quindi ci si prodiga in una buffa contabilità che non considera un unico semplicissimo aspetto, ovvero che l'incidente avvenne nell'URSS, ovvero non un paese brillante quanto a trasparenza sui propri fatti interni. Ma Testa, pur di difendere il nucleare, sarebbe disposto perfino a citare la Pravda.
Alla fine conclude citando Obama e le sue centrali atomiche, richiamando questo spettro del riscaldamento globale. Obama, dunque, paga soldi pubblici alle imprese per fare centrali atomiche perché si devono abbattere le emissioni, visto che il nucleare è antieconomico e, se non lo si sostiene, allora nessuno lo fa. Ma Obama paga le centrali nucleari perché, ora come ora, la tecnologia leader nel campo delle fonti rinnovabili ce l'abbiamo noi europei (vedi il Progetto Archimede), noi italiani in testa, per una volta. Gli USA investono sulle proprie tecnologie e cercano di limitare le importazioni di brevetti stranieri. Perché noi non possiamo fare lo stesso col sole, i gas sotterranei e il vento?

martedì 10 agosto 2010

Proiettili a Ciancimino e la saga di Franco

A casa di Ciancimino è stato recapitato un pacchetto indirizzato al figlio di cinque anni del testimone, condito con una minaccia sul fatto che le colpe dei padri ricadranno sui figli e che tutto ciò che accadrà sarà unicamente responsabilità di chi parla e di chi indaga. La notizia, ovviamente, è stata liquidata in qualche trafiletto dai giornali, probabilmente perché l'ennesima minaccia di mafia contro chi si ostina a collaborare con lo Stato (e a svelare losche trame all'interno dello Stato stesso) ormai non fa più rilievo.
Scoprendo il messaggio e il proiettile, Ciancimino ha minacciato di far cessare la collaborazione, di chiedere il ritiro del suo libro sui fatti del '92-'93 e di diventare anche lui un eroe, come Mangano è stato celebrato da Dell'Utri, in un messaggio intimidatorio a Berlusconi in cui si aggiungeva che non tutti sono bravi a tacere come  lo stalliere di Arcore, quando finiscono in cella come rischia, appunto, il senatore siciliano fondatore di Forza Italia.
Trafiletto nel trafiletto, invece, è un'altra notizia, forse più interessante di questa e certamente fondamentale per chi segue le indagini sulle stragi di Mafia (o di Stato?) di quegli anni. Era infatti stato scoperto il numero di cellulare del misterioso agente Franco, quello che avrebbe fatto da trait-d'union tra le istituzioni e Cosa Nostra nel periodo della trattativa. Si sperava così di poter risalire rapidamente all'identità di quell'uomo dei Servizi, ma invece alla richiesta fatta alla TIM per conoscere l'intestatario dell'utenza ci si è sentiti rispondere che quel numero non sarebbe mai stato attivato: strano, visto che i numeri precedenti e successivi a quello in questione erano invece regolarmente operativi. Di chi era quindi quel numero? Chi ha voluto che negli archivi del gestore di telefonia non risultasse?
Intanto dalle carte di Vito Ciancimino, lo scomparso sindaco mafioso di Palermo, appare una nuova indicazione sulla pista di Franco: una siglia, "F.C. Gross" seguita da una freccia a sua volta seguita dal cognome "De Gennaro", forse l'ex capo della Polizia, sospetta qualcuno, forse no, una semplice coincidenza.

sabato 7 agosto 2010

La libertà per Piero Ottone

Sull'ultimo numero de "Il Venerdì di Repubblica" è pubblicato un articolo di Piero Ottone sugli effetti che i recenti scandali potranno avere sul mondo cattolico. L'opinionista ammette che sarà ben difficile che qualche caso di pedofilia possa convertire all'ateismo (o, meglio, lui usa la forma più à la mode agnosticismo, che ormai però è divenuta sinonimica nell'improprio uso corrente), ma crede che sia ben possibile che gli italiani, popolo legato alla devozione cattolica, finalmente acquistino quella maggiore libertà che attualmente godono i credenti dei paesi protestanti.
Appare assai singolare questo sostantivo "libertà" legato alla fede religiosa, dato che, almeno stando alla carta, la libertà religiosa dovrebbe essere garantita e rispettata dalla Repubblica Italiana. E anche guardando allo stato dei fatti, nulla lascia pensare che i cattolici italiani siano privati di qualche loro libertà legata al culto, mentre, anzi, è riconosciuto loro un largo spazio espressivo. Infatti hanno pieno diritto di apertura di luoghi di culto, di predicazione pubblica, di celebrazione in spazi aperti dei riti religiosi, di adunanza in occasione delle festività e tutte quelle altre piccole cose che differenziano uno Stato laico e aperto alle varie esperienze religiose da uno fanatico, intollerante e autoritario.
Ma, a sorpresa, Piero Ottone ci fa apprendere un nuovo concetto di libertà, a noi fino ad ora sconosciuto. Secondo lui, infatti, i cattolici italiani non sarebbero liberi perché legati a quei riti e quelle credenze che non trovano fondamento nelle Scritture (ad esempio la Confessione e la messa domenicale), mentre invece i protestanti (qui forse si riferisce a quelli europei, dato che in America le cose sono un po' diverse) si sono finalmente scrollati di dosso questi retaggi. Infine, si auspica il giornalista, magari dopo questi scandali aumenteranno le persone che adorano Dio a casa loro invece che in chiesa.
La riflessione mi lascia allibito sia da cattolico che da democratico. Da cattolico per via della critica gratuita che viene fatta alla mia religione, trasformata in una sorta di asservimento volontario a non si sa bene cosa, a fabbrica di impegni senza senso e opprimenti. Senza, poi, che chi scrive presenti uno straccio di argomentazione al suo pensiero, assunto ad assioma attraverso il quale valutare la realtà in modo pseudo-oggettivo.
Da democratico, perché Ottone trasforma un parametro formale come la libertà, che è riempibile di ogni contenuto, anche di nessuno, in un criterio di valutazione sostanziale, per cui non si è liberi perché si fa ciò che si vuole (come ritenevamo fino a venerdì mattina, prima di leggerlo), ma si è liberi perché non si fa qualcosa non condivisa dall'autore di un articolo di giornale: dunque tutti sono asserviti se non condividono la routine quotidiana di Piero Ottone, o quantomeno non se ne discostano sensibilmente (inserendoci per esempio occasioni di ritrovo diverse dal circolo bocciofili). Gaber non insegnava che la libertà è la libertà di partecipare?
Trovo poi preoccupante che sulle colonne dei quotidiani qualsiasi uscita di casa diversa dallo shopping e dall'happy hour siano costantemente avversate, in quanto ritenute occasione di pericolo o pure perdite di tempo prezioso, magari spendibile più efficacemente seduti in poltrona a sentire il politico di turno, circondato di prostitute, gridare alla necessità di difendere la tradizione cattolica dall'invasione degli immigrati. Oppure sempre seduti sul divano a leggere gli articoli con cui Piero Ottone ogni venerdì ci riserva lamentele da bar dello sport sul fatto che i calciatori dei club siano tutti stranieri (vedere il penultimo numero dell'allegato di Repubblica...).
Il fatto che delle persone ogni domenica si alzino dalla poltrona per andare a in un posto dove si leggono cose scritte venti secoli fa, ma che fanno evidentemente così tanto arrabbiare così tante persone ancora oggi, probabilmente a molti non va giù. Non va giù che venga proposto un messaggio diverso da quello che a cui siamo esposti quotidianamente a reti unificate, dove dominano le icone del consumismo globalizzato, della civiltà dell'avere e del tutto e subito. E, sebbene certi movimenti ecclesiali recenti, ovvero le parti peggiori del mondo cattolico che si arrampicano ai peggiori sofismi per coniugare Cristo e Mammona, Vangelo e razzismo leghista, Discorso della Montagna ed edonismo Mediaset, il pericolo che qualcuno, in queste domeniche tanto temute, possa sentire una parola letta di troppo, decidere di approfondire la lettura a casa e cominciare a pensare con la propria testa è troppo grande: meglio invitare tutti a restare sul divano ad "adorare Dio" lì e sperare che tutti si dimentichino di questi fastidiosi versetti sovversivi e tornino a dividersi il tempo tra TV, shopping e sabati sera.

giovedì 5 agosto 2010

Veronesi guiderà l'agenzia nucleare italiana. E il Pd se ne libererà

Veronesi, dopo le assai strane posizioni assunte riguardo agli inceneritori, si è arruolato nel partito nuclearista italiano e ne ha raccolto i frutti, dato che sarà a capo dell'agenzia nucleare nostrana, abbandonando (per la gioia degli elettori rimasti del Pd) il seggio da senatore democratico. L'illustre medico ci aveva assicurato che  i termovalorizzatori non causerebbero danni alla salute per via delle sostanze cancerogene prodotte, posizione che aveva sorpreso molti nella comnunità scientifica, dato che sembrava più fondata su premesse politiche che tecniche. Più scientifico, magari, sarebbe stato portare avanti la battaglia pro-inceneritori sostenendo che si tratta di una tecnologia in fase di forte sviluppo, che il rischio dei fumi, con le dovute precauzioni, può essere abbattuto; ma volete mettere gridare ai quattro venti che quei bei fumi neri non fanno male e che con essi ci si può fare senza problemi un bell'aerosol?

Adesso ci viene ad insegnare che il nucleare è bello e ci farà guadagnare un sacco di soldi. Peccato che dei nuclearisti più informati di lui, i professori dell'MIT di Boston (che non sono senatori e non hanno incarichi politici nell'ambientaccio politico italiano), abbiano pubblicato un documento in cui si analizzano costi e benefici di questa tecnologia che loro affermano voler promuovere. E, molto interessante da notare, a partire da pagina 37 (pagina 47 del pdf) l'analisi economica del problema è impietoso: il nucleare costa tanto e rende poco, leggere per credere.
Di seguito pubblico i link del vecchio blog dove si trova un riassunto in italiano del documento, per chi se la cava peggio con la lingua inglese. La fonte primaria, intanto, è sempre disponibile per il raffronto.
PARTE PRIMA
PARTE SECONDA

mercoledì 4 agosto 2010

Morire per un albero

Un albero del Libano meridionale aveva un problema di fondo: era cresciuto inclinato verso mezzogiorno. Difetto comune a molte piante, questo (si chiama eliotropismo: i vegetali sono attratti dal sole), ma che non crea poi troppi problemi agli uomini. O, meglio, non ne crea quando l'albero non si trova sulla linea di confine tra due paesi tra cui regna una fragile pace, mantenuta puramente dalla presenza di una forza di interposizione delle Nazioni Unite, l'Unifil.
E così nella giornata di ieri un gruppo di soldati israeliani si era messo a segare via quell'albero, denunciato come un intralcio alla visuale del territorio dello Stato vicino da parte di telecamere di sicurezza. Tuttavia la mancanza di coordinamento tra i vari comandi militari, l'inettitudine (grave, visto ciò che ha portato) dell'Unifil e il clima tesisssimo tra le due nazioni ha spinto una pattuglia dell'esercito libanese, dopo aver sospettato uno sconfinamento, a intimare la ritirata e, dato il diniego degli altri, dare il via ad un conflitto a fuoco di quattro ore conclusosi col tragico bilancio di quattro vittime tra le parti ed il solito "danno collaterale", un giornalista morto nel bel mezzo della sparatoria.
Ovviamente Israele e Libano, come si fa sempre, hanno dato versioni diverse sulle dinamiche dei fatti, anche profondamente diverse nei dettagli. La principale, ma non unica, differenza era la dislocazione esatta dell'albero: la sua inclinazione lo poneva in zona di competenza israeliana o libanese? Nella giornata odierna l'Unifil ha affermato che l'albero era molto inclinato a sud e quindi l'operazione di abbattimento (poi regolarmente avvenuta) era legittima e inclusa nelle attività di "manutenzione del confine" messe in agenda da Tsahal (l'esercito di Israele).
Subito gli analisti e gli pseudoanalisti si sono messi a speculare sull'incidente di cui in realtà non si sa molto. Il TG1 (che ci ostiniamo a definire telegiornale, nonostante tutto) subito trasforma il comunicato dell'Unifil in cui si dichiara la posizione dell'albero in una sottoscrizione dei rapporti più spinti degli israeliani (ovvero non quelli poi accolti dal governo, che vuole mantenersi diplomatico, non scatenare una guerra): la sparatoria per una controversia così ridicola è diventato un agguato messo all'opera da cecchini libanesi, con l'esercito del Paese dei Cedri che, armato follemente dagli occidentali, adesso non combatte, come avrebbe dovuto, Hezbollah, ma fa il suo gioco. Analisi che fa ridere i polli e fa venir voglia di smettere di pagare il canone Rai, dato che in Libano tutti i partiti hanno la propri milizia e attaccare un movimento politico nel suo braccio armato vuol dire innescare una guerra civile. Inoltre sarebbe carino sapere che ci avrebbe guadagnato il comando libanese a schierare i suoi cecchini contro dei soldati che stavano svolgendo mansioni da giardinieri, quando anche il governo di Beirut in queste ore sta seguendo la strategia della diplomazia, non della corsa al conflitto.
Altri (Il Giornale, per esempio, altro pseudo notiziario) avanzano l'idea di un tentativo di Hezbollah, tramite apparati dello Stato libanese, di sabotare la fragile tregua tra i due paesi per salvare i propri dirigenti dall'arresto per l'omicidio di Hariri. Altra farneticazione degna della sua fonte, dato che un partito politico che dall'ostracismo è riuscito a passare al governo avrebbe ben poco interesse, adesso, a giocarsi il tutto e per tutto in una guerra totale contro lo strapotente vicino israeliano, tutto per il bene di quattro suoi vertici che, proprio per come è fatta la democrazia di Beirut e per come è attenta a mantenere il fragile equilibrio tra le forze in campo, probabilmente la faranno franca comunque.
Non sfiora nessuno, forse, l'idea più semplcie, ovvero che tutto sia stato semplicemente un incidente, ma un incidente annunciato e quasi inevitabile allo stato attuale.
Chi semina vento raccoglie tempesta, si dice, e certamente lo stato di tensione tra Libano e Israele, rafforzato dall'oltranzismo del nuovo governo israeliano, non poteva che generare un uragano di odii ed attriti tra le due nazioni, soprattuto tra le opinioni pubbliche.
Va aggiunto anche che gli incidenti sui confini tra nazioni ai ferri corti sono sempre molto frequenti e, per evitarli, esiste appunto l'istituto delle forze di interposizione. Si tratta di soldati neutrali che, a cavallo del confine, garantiscono che gli ex belligeranti non si scontrino tra loro e non ci siano sconfinamenti o conflitti per le zone contese. Ma nel caso di specie la forza di interposizione non è stata schierata sul confine, in modo da tenere lontane le due parti da esso ed evitare incidenti, ma unicamente da un lato del confine, quello libanese, rimanendo così nell'impossibilità di controllare i movimenti delle unità israeliane e di scortarle quando si avvenutrano nelle zone 'calde'. Ora come ora, invece, i caschi blu possono unicamente gironzolare per il Libano meridionale senza in alcun modo venire in contatto, se non telefonico, con uno dei due ex belligeranti.
Sarebbe bastato, quindi, che Israele accogliesse i caschi blu in una strisciolina di cento o duecento metri di larghezza per evitare questo inutile scontro e garantire la sicurezza da qualsiasi incidente. Ma si sa, Israele non rinuncia nemmeno ad un palmo di terra, neppure per salvare le vite della propria gente: il nazionalismo trasforma sempre gli uomini in pedine sacrificabili per un fantomatico bene patrio.

lunedì 2 agosto 2010

Vietti al CSM, alias inciucio. Appello al CSM

Grazie ad un accordo tra D'Alema e Casini Marcello Vietti, dell'UDC, è stato eletto membro "laico" del CSM. Ma chi è Marcello Vietti?
Vietti è membro storico dei neo-democristiani di Casini, è stato sottosegretario alla Giustizia del secondo governo Berlusconi, sotto il dicasterio drl leghista Roberto Castelli. Si è sempre distinto, ma purtroppo in negativo: le sue posizioni omofobe e la tolleranza zero per i tossicodipendenti e la sua militanza nel partito trasversale dei clericali si sono affiancate alla sua complicità verso il Presidente del Consiglio e le sue continue richieste al Parlamento di leggi-vergogna. All'attivo, per esempio, può vantare la firma della famosa depenalizzazione del falso in bilancio che permise a Napoleone jr di essere assolto nel processo All Iberian perché "il fatto non costituisce più reato", ovvero l'imputato ha deciso che non è più sbagliato truccare i bilanci. Poi nel 2004, dopo gli scandali finanziari nostrani, a chi gli domandò se non fosse il caso di reinserire il reato a garanzia dei risparmiatori, lui candidamente rispose che fare ciò avrebbe dato forza al sospetto che effettivamente quella fosse stata una legge ad personam...
Poi, in "opposizione", ha donato al paese un'altra perla di servilismo, in tema di legge sul legittimo impedimento. Presentò infatti un emendamento che avrebbe potuto trasformare un provvedimento di difesa per tutti i membri del CdM in un provvedimento che avrebbe tutelato il solo Presidente del Consiglio, beneficiario unico dello scudo. Geniale, no?
Adesso, con quest'ultimo inciucione, le opposizioni si sono messe d'accordo nella scelta di Vietti come membro del CSM, con lo scopo dichiarato di farne il vicepresidente (il presidente, ricordo, è Napolitano come Capo dello Stato). Pd, UdC e PdL, dunque, si sono federati in una sorta di partito dell'impunità, del sabotaggio della macchina della giustizia. I secondi due hanno poco da perdere: i loro elettori scondinzolano quando dimostrano di infischiarsene della legge. Ma il Pd? Il Pd cerca per l'ennesima volta il suicidio politico.
C'è ancora una speranza, però: il CSM potrebbe pur sempre non eleggere Vietti proprio vicepresidente.
E' complicato, ma se i membri togati non saranno contaminati da P3 e altri impicci, allora forse è ancora possibile fare qualcosa.

QUI, però, troviamo un APPELLO per chiedere al CSM di non fare questa scelta folle.