sabato 10 luglio 2010

Un'etica fondata sulla ragione (un'introduzione)

Nell'eterno dibattito tra credenti e non credenti è abbastanza frequente un reciproco scambio d'accuse, dove il credente è bollato come irrazionale e credulone, mentre il non credente come immorale e insensibile. Il credente medio tende a balbettare se accusato di ciò, rispondendo delle ridicole giustificazioni e spesso adducendo una indecorosa svalutazione della ragione a vantaggio del "sentire" e del sentimento. Molto meglio organizzati, invece, sono i non credenti: nonostante il non credente medio non sia qualitativamente migliore del credente medio (si osserva sempre omogeneità nei seguaci delle correnti di pensiero di massa), tuttavia i vertici del movimento ateo organizzato e le più eminenti intelligenze non credenti (che godono di tutta la mia considerazione) hanno col passare dei decenni e dei secoli rintuzzato l'accusa mossa loro dai credenti e l'hanno anzi ribaltata, accusando le religioni di empietà e postulando l'esistenza di un'etica di ragione.
Partendo dai tempi più antichi, possiamo trovare il capofila di questo ribaltamento nell'illustre Epicuro, il quale tuttavia non era propriamente un ateo, dato che credeva negli dei, ma li definiva come distaccati dal mondo e beati nel loro isolamento fuori dal mondo. Il filosofo, infatti, seguito dai suoi discepoli, affermava che la religione era stata causa di grandi nefandezze e che il non volerla seguire (dato che non avrebbe alcun senso mettersi in rapporto con divinità estranee alle nostre sorti) poteva al massimo metterci al riparo da tali empietà. Tuttavia non aveva certo intenzione di fondare un'etica nuova su basi razionali: Epicuro predicava la ricerca del piacere (quello vero, la liberazione dal dolore, non quel piacere artificiale e fittizio che rincorriamo noi oggi) e attribuiva poca importanza al livello etico, sebbene lui stesso ammetteva che è ben difficile essere empi e felici nello stesso tempo.
E' invece di origine cristiano-medievale, invece, l'idea che l'etica sia distinta dalla divinità, paradossalmente. La Scolastica, invece, accogliendo spunti stoici ed aristotelici, aveva postulato la dottrina dei due libri, secondo la quale due sono i libri rivelati all'uomo da Dio, uno le Scritture, l'altro il Mondo. Ragion per la quale il filosofo può attingere indistintamente dall'uno e dall'altro per giungere alle proprie conclusioni, visto e considerato che Scritture e realtà, fede e ragione, non possono in alcun modo contraddirsi a vicenda. Si apriva dunque la porta al giusnaturalismo, secondo il quale ciò che è giusto e sbagliato, ciò che è lecito e illecito, è chiaramente individuabile dallo studio razionale ed empirico della realtà.
Così vennero il Seicento ed il Settecento, in cui prima si affermò la liberazione della filosofia dalla teologia, dell'etica da Dio, mentre poi si arrivò definitivamente a predicare il troncamento di qualsiasi legame tra la sfera secolare e quella religiosa, per cui l'etica pubblica, rappresentata dalla legge, sarebbe dovuta essere l'espressione razionale della volontà della Nazione (divenuta Popolo per i democratici) e non l'adeguamento del vivere comune ai precetti divini. E qualsiasi intrusione delle sfere ecclesiastiche nel parto di questa volontà nazionale fu represso anche col sangue (il Terrore francese, per esempio).
Nell'Ottocento, tuttavia, il giusnaturalismo entrò in profonda crisi e cominciò a diffondersi quella che viene chiamata la legge di Hume: non si devono assurgere le proposizioni descrittive a proposizioni prescrittive, ovvero ciò che è non è detto che sia ciò che deve essere. La sinistra hegeliana e Marx furono i primi grandi assertori di questa rivoluzione del pensiero etico e politico e ben presto l'etica si svincolò totalmente anche dai presupposti giusnaturalisti, rimanendo però orfana.
Il Novecento dei nazionalismi e dei totalitarismi insegnò ben presto alle masse che è etico ciò che vuole la Nazione e, poi, che ciò che vuole la Nazione è ciò che vuole la sua guida illuminata. Non c'era più posto per la religione in una società in cui religione era diventato lo Stato, la legge dello Stato e l'ideologia dello Stato. I frutti di questa concezione furono milioni di morti e queste idee furono accantonate e dimenticate dai più.
Il dopoguerra fu un'epoca difficile, in cui l'etica borghese liberale conobbe un suo revival di breve durata e poi la Contestazione seguita dal trionfo di correnti intellettuali relativiste se non proprio nichiliste distrussero qualsiasi concezione unificante che potesse essere fondativa di una morale comune. Il nostro tempo, scosso da questi sommovimenti profondi della coscienza sociale, si è trovato in balia di correnti diverse, dunque, troppo eterogenee per essere conciliate e tutte troppo deboli per imporsi e troppo forti per essere schiacciate.
Alla luce del fallimento di tutte le etiche non religiose fino ad ora sperimentate, è possibile per il nostro tempo fondare una nuova etica condivisa?

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