sabato 31 luglio 2010

Arendt, Liebrecht, Nirenstein e la banalità dell'inquadrare

Su La Repubblica di oggi, nella sezione delle novità librarie, si trova un articolo-intervista di Susanna Nierenstein (sorella di Fiamma, vice-presidente pidiellina della commissione esteri della Camera) a Savyon Liebrecht, autrice del libro La Banalità dell'Amore, sulla relazione mai morta tra i filosofi Hannah Arendt e Martin Heidegger. La prima costretta a lasciare la Germania con l'avvento del Nazismo per via della sua religione ebraica, il secondo il suo maestro, poi divenuto fervente nazista. L'amore di lei per lui, tuttavia, non venne meno nonostante tutte le contingenze storiche e su quest'amore la scrittrice si interroga.
Ma noi non parleremo del libro, che di per sé tratta un argomento interessante, ma certamente non di stretta attualità. Si tratterà invece dell'intervista che la scrittrice ha rilasciato alla giornalista, una serie di dichiarazioni che sono di grandissimo interesse per comprendere una delle realtà socio-politiche più importanti dell'ultimo mezzo secolo, lo Stato di Israele.


Se noi provassimo a raccogliere in giro per il mondo milioni di persone provenienti dai paesi più disparati, con alle spalle le storie più diverse e con il sottofondo culturale più disomogeneo, ma uniti solo dall'identità religiosa, allora molto probabilmente la speranza di trasformare questi uomini in una nazione si rivelerà una vana chimera. Eppure in un certo momento storico, il 1948, milioni di persone con queste caratteristiche proclamarono l'indipendenza del loro nuovo Stato e lo difesero con le armi alle immediate reazioni belliche dei loro vicini.
Messa così la faccenda, tutto sembra incredibile. Ma allo stesso modo tutto diventa più chiaro inserendo gli altri tasselli del puzzle, forse più marginali all'apparenza, ma sostanzialmente fondamentali. Per prima cosa, il sionismo, il nazionalismo ebraico, aveva forgiato una cultura capace di esaltare gli aspetti culturali comuni delle tantissime comunità ebraiche grazie alla fede religiosa ed aveva, anche per reazione all'odio diffuso contro gli ebrei, forgiato un popolo dove prima ce n'erano migliaia. In seguito il sogno di una terra, per gente senza terra, aveva creato un senso di attaccamento e di appartenenza alle nuove concessioni ottenute difficilmente riscontrabile in situazioni diverse. Infine la paura e la persecuzione ai massimi livelli, la Soluzione Finale, avevano messo sulla stessa barca le varie esperienze comunitarie ebraiche, rafforzando l'idea che la salvezza passa attraverso l'avere una propria terra dove, bene o male, convivere.
Ma tutto ciò non basta per avere uno Stato. A riprova, esaminando la struttura sociale della neonata repubblica israeliana, scopriamo che le comunità ormai stanziate erano perlopiù agricole, organizzate in centri rurali omogenei per provenienza degli immigrati e abbastanza isolati tra loro. L'organizzazione del kibbutz con il suo forte comunitarismo e il suo semplice socialismo dà la misura dell'atomismo di questa nuova nazione.
Per avere uno Stato servono un nazionalismo, un'ideologia comune ed una cultura comune, tre fattori che Isreaele cercò di forgiare nei primissimi anni di vita e che spinsero e spingono ancora oggi a vedere con scarso entusiasmo i ripetuti tentativi degli immigrati di ricreare nella nuova patria il mondo abbandonato nella vecchia patria.


In questo quadro si collocano le affermazioni contenute nell'intervista di Liebrecht, dove il ruolo degli ebrei tedeschi nella nascita di Israele è esaminato in modo abbastanza critico. La scrittrice, infatti, osserva come le comunità ebraiche tedesche siano sempre state le più tedesche e le meno ebraiche, in una sorta di "sindrome di Stoccolma" che le rendeva prigioniere della cultura di quel popolo che le aveva così ferocemente perseguitate. Si ricorda che gli immigrati mitteleuropei l'ebraico lo hanno sempre parlato male, mentre frequentissima è stata la costituzione di circoli in cui gli ex connazionali potevano ritrovarsi per tornare con la mente e coi gesti a quella Germania di cui Hitler era stato solo un ospite austriaco e che non potrà mai essere ridotta al solo nazismo.
Questa sindrome di Stoccolma è quella che avrebbe legato anche la Arendt a Heidegger, in una relazione poco razionale e molto sentimentale che avrebbe fatto perdonare fin troppo facilmente alla filosofa le colpe dell'amato, contrariamente alla posizion da lei assunta nei confronti di Eichmann (ne La banalità dle male). Ma, si rimprovera inoltre, questa prigionia nel passato ha impedito alla Arendt di dare il sostegno dovuto al nuovo Stato di Israele, sommerso di critiche contro la sua dirigenza e la sua opinione pubblica sempre nella stessa opera, con un atto di accusa per lo svolgimento del processo ad Eichmann (più simile ad una ostentazione di fierezza israeliana che ad un serio tentativo di comprendere cosa accadde in quegli sciagurati anni) che, sebbene spesso corretto nella sostanza, nei toni è inaccettabile.
La prima reazione alla lettura dell'articolo è stato un pensiero a ciò che sta accadendo alle Giornate della Memoria degli ultimi anni, ovvero la trasformazione delle stesse in giornate dell'oblio o della polemica su uno Stato: ancora qualche anno con dichiarazioni simili e presto l'Olocausto si trasformerà in una sfilata di bandiere israeliane da una parte e di bandiere palestinesi dall'altra, mentre il senso delle commemorazioni verrà meno del tutto. Non ha senso trasformare il ricordo del massacro perpetuato da un fanatico totalitarismo nei confronti di tutti i diversi presenti nelle sue terre (ebrei, zingari, testimoni di Geova, omosessuali, handicappati e via dicendo) nell'occasione per discutere un problema politico odierno come la risoluzione di una controversia tra uno Stato sovrano ed un popolo senza Stato.
Poi, rileggendo l'articolo, si comprende che forse la prigionia non è quella degli ebrei tedeschi, espatriati dalla loro terra che ormai era loro ostile e costretti a trafugare la loro grandissima cultura di secoli di altissima filosofia e letteratura nel bel mezzo del sospetto dei loro nuovi compatrioti, ma quella degli israeliani rimasti fermi a quelle giornate del 1960 in cui si celebrà il processo ad Eichmann, aggrappati ancora all'equazione giustizia per l'Olocausto-rivalsa israeliana che da un alto impedisce di comprendere, come denunciava la Arendt, dall'altro crea quella concezione di Israele come cittadella-baluardo che di certo non contribuisce né ai processi di pace né all'accettazione da parte delle opinioni pubbliche d'Occidente delle sue politiche.
Non si può sottomettere il desiderio di comprendere la realtà, la più nobile delle aspirazioni umane, al serrate-le-fila di una nazione che si sente assediata. Non si può usare una religione per mettere a tacere la ricerca filosofica razionale. Non si può, infine, pretendere che tutti gli intellettuali vestano la divisa della loro etnia/nazione/fede di appartenenza vietando le voci dissenzienti, per quanto poco tenere siano. Se una democrazia ha un vantaggio, questa è la possibilità di critica delle scelte della maggioranza, la facoltà di avanzare proposte alternative che permettono di vagliare meglio quelle sul piatto e, con ponderazione maggiore, fare le scelte più utili. Il nazionalismo militante, invece, vuole imbavagliare ogni voce contraria creando quelle entità mostruose e monolitiche che vanno avanti per forza di inerzia, chiuse al dialogo e capaci di comprendere solo il linguaggio della forza.
Forse, allora, se c'è una cosa da imparare dalle commemorazioni delle infinite vittime del nazismo, questa è appunto la necessità di saper coesistere col diverso, con chi non si è incasellato nell'inquadramento nazionalista, che sia lo zingaro senza terra, l'ebreo chiuso nel ghetto o l'intellettuale dissenziente. Tre facce di un unico problema che appare regolato più da regole formali, che da assiomi contenutistici.

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