giovedì 15 luglio 2010

Un'etica fondata sulla ragione (II parte)

Forse la chiave di tutto sta nela nostra scarsa attitudine al pesare i termini che usiamo e di cui, spesso, abusiamo. La parola "ragione", per esempio, ha subito a partire dal periodo illuminista uno scivolamento ideologico impressionante. In precedenza, la ratio era solo una parte dell'animo umano, insieme al sentimento e alla concupiscienza: era la capacità di formulare giudizi a partire da premesse, la capacità di dominare le passioni, la capacità di fare tutto ciò che differenzia l'uomo dagli animali. In particolare, la parte principe della ragione era la logica, ovvero l'arte del ben ragionare, del ben scegliere le premesse e da esse trarre le corrette conclusioni.
In seguito, invece, la parola ragione si è tinta di un connotato positivo e luminoso, traslando dal piano della forma a quello della sostanza. Così la parola ragione contrasta con termini come superstizione, pregiudizio, ignoranza e, talvolta, religione (basta ricordare lo slogan di un recente film di successo praticamente boicottato in Italia: usa la ragione, non la religione). Tuttavia questo passaggio semantico dal formale al sostanziale del significante non è stato assolutamente accompagnato da un parallelo ampliamento effettivo del significato. La ragione, infatti, continua ad indicare un semplice metodo mentale, non i concetti contenuti nella nostra mente. Si sa, il piano dell'effettività è una cosa, quello delle nostre immagini mentali è un altro.
Dunque sembra abbastanza logico porsi la domanda che ci siamo posti all'inizio, ovvero se sia possibile postulare un'etica fondata sulla ragione. Ma se ragione, come abbiamo detto, è una parola che indica solo un procedimento formale di trattare le premesse per ottenere le conclusioni, a che principi sostanziali si rifà questa nostra etica ricavata con metodo razionale? La risposta è semplice e nello stesso tempo desolante: i principi sono quelli che la nostra società ha ereditato, oltre a quelli ottenuti con metodo razionale rielaborando i principi-premessa ereditati.
Non è questa la sede opportuna per indagare su quale sia l'origine di questi principi da noi ereditati. E' abbastanza banale richiamare le idee cristiane che sempre, volenti o nolenti, finiscono per influenzarci, ma poi si devono citare anche le eredità delle scuole filosofiche classiche, le negazioni del passato che dal Seicento in poi hanno costellato il pensiero occidentale, le influenze arabe, eccetera. Ma siamo davanti ad un coacervo incommensurabile di contenuti difficilmente individuabili e separabili tra loro.
E dunque, sembra di capire, l'etica finirebbe per essere relegata alla contingenza dei principi in un certo momento alla moda. Tali principi, quindi, sarebbero eletti a razionali o a ragionevoli e sarebbero imponibili a tutti sulla base della contingenza del momento. La ragione, invece, interverrebbe solo in un momento successivo, ovvero in caso di scontro tra principi parzialmente incompatibili (e quindi in mediazione), oppure in fase di ottenimento di un nuovo enunciato a partire da postulati di base (e quindi in produzione). Un po' poco per parlare di etica fondata sulla ragione.
Un'etica del genere, inoltre, solo ipocritamente potrebbe autoaffermarsi vincolante per tutti, mentre molto più onestamente può dirsi una media ponderata delle concezioni diffuse in una data società, concezioni che finiscono per essere plurali e spesso inconciliabili e che ci costringerebbero di volta in volta, in caso di contrasti e spaccature, o ad ampliare il campo dell'eticamente indifferente, oppure ad imporre sulla base del principio maggioritario una delle più opzioni esistenti. E, ovviamente, consapevoli che nel primo caso avremo catalogato come eticamente indifferente un tema niente affatto indifferente, mentre nel secondo che magari si starà facendo ingiustizia, ma sulla base della forza dei numeri (e abbiamo visto questo cosa può portare).
Si potrebbe a questo punto discutere se un'etica religiosa sia o meno immune da questo rischio. Se, infatti, è vero che una persona di fede tenderà a dichiarare immutabili i postulati fondativi della propria religione, la pratica e la storia, invece, ci insegnano l'esatto opposto, ovvero che anche nel discernimento del giusto dallo sbagliato, del bene dal male, all'interno delle confessioni religiose si è registrata evoluzione, a volte anche profonda. Un esempio può essere fornito dalla concezione della guerra offensiva nel cristianesimo (anche se solo cattolico). Ma, si obietterà a questo punto, comunque l'importante è che il postulato sia considerato immutabile per mano umana, ragione per cui nessuno volontariamente cercherà di cambiare il codice etico, ma semplicemente esso sarà "vittima" di una costante quanto involontaria evoluzione. E forse che non è questo ciò che si è sempre rimproverato all'etica religiosa, ovvero la sua rigidità anche davanti all'ingiustizia palese e la sua cieca ostinazione nel tenere alti principi morali disconosciuti dalla società tutta e che agli occhi di tutti portano più male che bene alla gente?

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