domenica 19 settembre 2010

Cultura ed erudizione

In nome del relativismo e della libertà di pensiero, la nostra società ha rinunciato al possesso una cultura unificata e, per questa ragione, anche la scuola ha perso gran parte del proprio compito di formazione culturale degli allievi. Piuttosto si richiede che essa insegni delle nozioni e faccia apprendere delle capacità che possano tornare utili al discente qualsiasi sia l'opzione culturale da lui preferita. Si insegna il mezzo, in poche parole, non il fine.
E' stata una svolta epocale questa esposta, pensando che prima si credeva che compito dell'educatore fosse la forgiatura di un individuo, di una persona umana nel suo complesso, all'insegna del progetto culturale ritenuto più adatto in quel contesto. Ci sono state l'educazione cristiana, l'educazione umanistica, l'educazione patriottica dello Stato moderno (quella di Libro Cuore, per intenderci) e l'educazione fascista, tanto per citare alcuni esempi di situazioni in cui la scolarizzazione non mirava solo ad impartire conoscenze, ma anche e soprattutto all'insegnamento di un modo di pensare ed intendere.
Nel Medioevo, così, l'erudito era anche un colto, ovvero una persona intrisa della cultura del proprio tempo (non solo nozioni, ma un sentire) con un bagaglio scientifico, teologico e morale bilanciato. Nel Rinascimento, ugualmente, si sostituirono alla teologia le humanae litterae, ma comunque in esse si cercava sempre un ideale comportamentale dell'uomo. Così come nella società post-tridentina le scuole dei Gesuiti erano le più ambite proprio perché avevano come aspirazione la formazione a tutto tondo dell'allievo. Obiettivo analogo lo si trovava nelle public school anglosassoni dove veniva plasmato il gentleman perfetto.
Nel secondo Novecento, però, in nome della libertà di autodeterminazione dell'individuo, questo fine culturale della scuola si è dovuto ridimensionare, con un passaggio del testimone alla famiglia, all'associazionismo, allo spontaneismo delle relazioni. Garantendo così a ciascuno la possibilità di scegliere chi essere, ma nello stesso tempo trasformando l'insegnamento in semplice erudizione che mira a creare tecnici e non persone, semplici ingranaggi funzionali alla nostra società di mercato, dove solo il meccanismo della circolazione dei beni stabilisce posizione e successo di un cittadino.
Non si può definire tutto ciò così nettamente un male: una società che non mira ad un unico obiettivo culturale è senza dubbio più aperta e tollerante di una che invece pretende che tutti condividano alcuni principi e valori predeterminati. Ma certamente è da questa costatazione che è nata una delle più oscure visioni del nostro immaginario, partorita già nella letteratura romantica, poi divenuta endemica nel cinema e nel fumetto: lo scienziato pazzo, il genio senza freni che, non avendo limiti morali e culturali, crede di avere il diritto di fare tutto ciò che la sua preparazione tecnico-scientifica gli consente. Figura che è stata esorcizzata in opere comiche e tragiche, elevate e commerciali, in seguito entrata in relazione strettissima con un'altra paura novecentesca, quella dell'autodistruzione del genere umano.

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