mercoledì 8 settembre 2010

Sakineh e la debolezza delle parole occidentali

La vicenda della lapidazione di un'adultera iraniana ha mobilitato il mondo intero e, in uno dei rarissimi casi di ragionevole concordia, tutti i leader politici occidentali, gli uomini di cultura e le personalità pubbliche si sono esposti in prima persona per chiedere l'annullamento della condanna a morte della donna.
La pena di morte non si distingue in alcun modo dall'omicidio: non ha la giustificazione della scelta tra una vita e un'altra (il condannato è al momento innocuo), non quella della legittima difesa, non quella della correzione. La pena di morte è un semplice gesto di vendetta pubblica, la decisione arbitraria che una persona, per ciò che ha commesso, non sia più degna di essere considerata tale e possa essere uccisa legittimamente. Questa è la ragione per cui questa condanna a morte, come quella molto meno nota di questo ragazzo sempre iraniano (molto meno conosciuto) e tutte le altre che quotidianamente sono pronunciate ed eseguite in giro per il mondo, in una presunzione di giustizia senza senso, debba essere respinta e biasimata da qualsiasi assertore dei diritti umani.
Sorprende, però, la totale assenza di coerenza da parte dei firmatari dei vari appelli a favore della donna, dei politici che hanno fatto esternazioni a suo favore e delle personalità pubbliche che si sono appellate alle autorità iraniane per la grazia. Non è certo questa né la prima né l'ultima esecuzione contro la quale ci si dovrebbe battere, eppure questa fa scalpore, tutte le altre no.
Non fanno scalpore gli assassini americani gasati, né i ladri cinesi che vengono decapitati, né ciò che accade in una nazione europea ancora retta da una dittatura, la Bielorussia. Non fanno scalpore, oltre che per le solite opportunità politiche (i Cinesi è bene tenerseli buoni, sugli Iraniani è meglio spalare tutto il fango possibile per preparare le opinioni pubbliche all'eventuale futura guerra), anche per un'opzione culturale molto più profonda: questa condanna riguarda un'adultera, quelle altre delle persone che hanno messo in atto comportamenti anche per noi classificabili come reato.
Fondamentale è questa distinzione per il modo di accogliere da parte dell'opinione pubblica un'uccisione. Dato che il reato anche per noi è (idealmente) un marchio di infamia, perché il criminale comune è semplicemente della spazzatura da togliere dalla circolazione in qualche modo (non ci importa come, basta che sparisca), allora il suo omicidio è tollerabile, solo appena biasimabile per non troppo gridate motivazioni morali. Ma la sfera della sessualità, per noi occidentali, è totalmente relegata all'alcova, è una questione in cui il potere pubblico non può immischiarsi: è intollerabile che una donna sia punita, a fortiori con la morte, perché ha tradito il marito.
La crociata dell'Occidente, dunque, lungi dall'essere basata su una proprosizione universale affermativa («uccidere una persona è sempre sbagliato»), si basa su una proposizione particolare («in alcuni casi è sbagliato uccidere una persona») molto meno incisiva e molto meno condivisibile. Non si afferma un postulato morale, una condicio sine qua non della civiltà, ma solo un nostro banale gusto culturale, un'opzione tra le tante possibili e dunque, come ogni opzione, accettabile o meno a discrezione.

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