martedì 28 settembre 2010

Il caso turco, la democrazia e la laicità

La laicità dello Stato è un principio cardine della convivenza pacifica di cittadini di religioni diverse ed è l'unica garanzia di vera uguaglianza davanti alla legge. E' stata proprio la laicità esasperata della repubblica turca a farci vedere quella nazione, almeno da noi occidentali, come la più vicina ai nostri valori tra quelle mediorientali (escludendo Israele) e per lo stesso motivo l'insediamento al governo di AKP e del suo leader Erdogan fu salutato con sconcerto dalle opinioni pubbliche europee, in cui era aperto il dibattito sull'ingresso della Turchia nella UE. Oggi, forse, il continuo tira e molla di Bruxelles, sommato alla crisi delle nostre economie, ha provocato un raffreddamento dell'euroentusiasmo degli anatolici che si sono stancati di attendere un via libera che non viene mai, giustificato, di volta in volta, con l'impreparazione economica, col mancato riconoscimento dell'annientamento della comunità armena nel 1915 o con la pendenza della questione curda.
La Turchia, a dire il vero, è già presente in un'organizzazione europea, il Consiglio d'Europa, e aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo (CEDU), sul cui rispetto veglia l'apposita Corte di Strasburgo. Gran parte del contenzioso turco davanti a questo tribunale ha riguardato le leggi kemaliste di laicizzazione dello Stato: alla nascita della Repubblica Turca, il padre della patria Mustafa Kemal impose l'uso dell'alfabeto latino, la trasformazione della religione in fatto privato, il divieto di circolazione col velo islamico negli edifici pubblici e altre misure di laicismo forzato, incluso un apparato militare tentacolare finalizzato allo scioglimento di tutti i partiti antilaicisti e la repressione del dissenso di matrice etnica (per via delle minoranze greche, georgiane, curde e armene ancora rimaste) e religiosa. Ebbene, queste leggi laiciste sono sempre state protette e tutelate dalla Corte, nonostante violassero palesemente il testo della CEDU, con la giustificazione della necessità di impedire un rovesciamento della repubblica laica da parte di gruppi confessionali.
L'ascesa dell'AKP, l'attuale partito di governo, fu contrastata appunto dai militari che vedevano in questa formazione una minaccia alla laicità dello Stato. E, in effetti, attualmente la laicità turca sta venendo radicalmente riformata, stravolta, secondo i laicisti, probabilmente con grande sollievo di quelle studentesse cacciate dalle università perché desideravano portare il velo o di coloro a cui l'attività politica è stata per decenni interdetta per via delle loro idee difformi da quelle dei kemalisti. L'unica religione di Stato in Turchia, si dice, è l'essere turchi.
A inizio mese, Erdogan ha incassato il più grande successo della sua carriera politica grazie al sì ottenuto nel referendum per la modifica della costituzione repubblicana. La riforma verte su una democratizzazione dello Stato, su un alleggerimento delle misure del laicismo e anche qualche concessione alle minoranze etniche, che fino ad ora erano più o meno relegate ad una cittadinanza di serie B per via del loro non essere integrate nella nazione turca. I risultati del referendum sorprendono soprattutto per la distribuzione geografica dei consensi: l'interno, agricolo e asiatico, ha votato per il sì alla democratizzazione, mentre le città della costa (eccetto Istambul) della Turchia "moderna" hanno scelto il no.
Tutto questo fa crollare gran parte degli schemi mentali di noi occidentali, che tanto ci siamo battuti negli anni passati (anche tramite la Corte di Strasburgo, un nostro tribunale che giudicava coi nostri parametri le faccende turche) per favorire la parte moderna della Turchia contro quella più arretrata, da noi vista come un ostacolo alla marcia di quella nazione verso il progresso. Adesso, invece, siamo costretti a vedere come riforme che avvicinano quella costituzione alle nostre di democrazia pluralista siano state osteggiate proprio da quei migliori che noi avevamo sostenuto.
Dobbiamo rassegnarci, forse, a capire che la democrazia è un modello formale che non è detto che debba essere utilizzato solo come una macchina di espansione dell'Occidente, ma che magari può essere utile in scenari culturali diversi per meglio venire incontro ai bisogni e alle aspirazioni delle genti del luogo. La Turchia, a quanto pare, ha più bisogno del diritto di far parte della propria comunità d'appartenenza che del livellamento e dell'individualismo di origine nostrana.

lunedì 27 settembre 2010

La veridicità di una lettera e l'analisi storica delle fonti

Supponiamo di ritrovare un papiro fino ad oggi sconosciuto in cui si afferma nero su bianco, a firma di un noto storiografo dell'epoca, che nel III secolo dopo Cristo un navigatore romano sia giunto su un'isola al di là dell'Oceano Atlantico dopo mesi di navigazione: quanti di voi griderebbero che questa sarebbe la prova dell'esistenza di una colonia di antichi romani in America? Sicuramente nessuno dotato di una minima tecnica di analisi delle fonti.
Sappiamo tutti benissimo che chi afferma qualcosa potrebbe benissimo mentire e che chi sostiene di essere qualcuno non è da escludersi che possa essere semplicemente un impostore. Ed è su queste due banalissime considerazioni che parte la ricerca storica nell'analisi di un qualsiasi documento che ci giunge (almeno apparentemente) dal passato. E solo una volta superato questo esame si può cercare di comprendere cosa il documento può o meno implicare.
Per prima cosa si deve capire se il documento è autentico, ovvero se l'ha scritto davvero chi sembra averlo prodotto. Supporto scrittorio, grafia, lingua, stile, datazione e altri aspetti più o meno oggettivi possono aiutarci a comprendere l'autenticità, senza per questo dirci nulla circa la veridicità dello scritto. Per esempio, un foglio che si autodefinisce un dispaccio di epoca napoleonicam ma che viene datato come del 1990 può benissimo contenere un'informazione vera, come la vittoria o la sconfitta dell'Imperatore francese in una data battaglia.
Ugualmente, un documento può essere autentico, ma non veridico: supponiamo, per esempio, di essere nel futuro e di voler tratteggiare un ritratto storicamente plausibile della figura di Silvio Berlusconi avendo a disposizione la raccolta completa delle edizioni delle 19:00 del TG4, confidando nella certezza che le nostre fonti sono autentiche dell'epoca. Chi comunica, sappiamo, è una persona che inserisce all'interno dei propri messaggi le proprie convinzioni personali, i propri odii e le proprie passioni, che può dire o meno qualcosa a seconda delle convenienze, così come anche inventarsi di sana pianta informazioni. Serve, dunque, un'attenta analisi contenutistica per verificare la veridicità o meno del contenuto del testo antico, magari comparando ciò che leggiamo con ciò che ci dicono altre fonti, con le scoperte archeologiche, con dati di fatto incontrovertibili.
Solo giunti a questo punto possiamo decidere quali conclusioni trarre dal documento, coa sia possibile o meno dedurre dalla sua lettura. Se è autentico e veritiero, allora possiamo affidarci ad esso come ad una fonte sicura per ricostruire il fatto storico a cui si riferisce e le sue implicazioni. Se è autentico, ma mendace, allora sarà forse più utile a comprendere la persona del suo autore, i motivi che lo hanno spinto a darci un'informazione falsa. Se non è autentico, al contrario, ma veridico, allora forse ci interesserà capire perché è stato prodotto, come faceva l'autore ad essere a conoscenza della verità e perché si sia nascosto dietro una falsa identità. Perfino se il documento è falso e mendace può interessarci: perché e da chi è stato scritto?
Torniamo, quindi, al caso di partenza. Supponiamo che il papiro si riveli autentico e veridico (le due cose, come visto, non sono legate) e che quindi effettivamente un antico romano sia giunto in America. Ciò implicherebbe davvero una successiva colonizzazione del continente americano da parte di suoi compatrioti? Mancherebbero tutti gli elementi per stabilirlo e qualsiasi storico che provasse ad affermarlo si ritroverebbe screditato inevitabilmente.
Ora, una volta fatto questo esercizio, provate ad applicare queste nozioni nella vicenda di Tulliani e della sua off-shore. Esce fuori un risultato interessante.

sabato 25 settembre 2010

Lo Stato sono io

Mentre tutti parlano della proprietà di una società privata, si ignorano le questioni che, magari, realmente interessano ai cittadini, che non credo che con le proprie tasse paghino gli stipendi dei parlamentari e dei governanti perché essi non debbano lavorare per vivere ed abbiano più tempo per farsi i propri affari. Ma questa non è una novità: è Napoleone jr a dettare l'agenda politica e le televisioni trattano di quello che vuole lui.
E' curioso, invece, che mentre si parla di questa società di un privato cittadino, di cui all'elettore non gliene può fregare di meno (non è un reato avere una società off shore), i mezzi d'informazione all'unisono abbiano sbandierato ai quattro venti una presunta condotta, questa sì gravissima, che ha ricevuto appena qualche ora di approfondimento nei nostri distrattissimi media: l'impiego di apparati dello Stato nelle beghe personali tra politici.
Perché si è arrivati all'assurdo che, se fosse falsa la famosa presunta lettera del ministro di quell'isolotto caraibico di cui quasi nessuno (eccetto gli evasori fiscali e Berlusconi, si intende) sapeva l'esistenza fino a poco tempo fa, allora i giornali del Presidente del Consiglio starebbero diffamando vergognosamente il presidente di un ramo del Parlamento (che, ricordo, costituzionalmente deve essere protetto da eventuali attacchi dell'esecutivo); se, invece, la missiva fosse vera, allora sarebbe ancora più grave, perché significherebbe che il giornale del Nano è riuscito a mettere le mani su un documento riservato e confidenziale di un governo straniero. E come avrebbe potuto farlo, se non utilizzando gli apparati dell'intelligence italiana, non a caso controllata dal Nano stesso?
E' questa la quaestio crucis: gli uomini del Presidente del Consiglio sono dei calunniatori e dei picchiatori, oppure sono stati adoperati apparati dello Stato unicamente per il tornaconto personale del capo del governo in carica? E, nel secondo caso, siamo sicuri che il Presidente del Consiglio non sarà disposto ad utilizzare le istituzioni pubbliche per "sbarazzarsi" di altri pericolosi avversari?
Va aggiunto che tutte le garanzie parlamentari, dall'autorizzazione all'impiego delle intercettazioni nelle inchieste all'immunità per voti espressi e dichiarazioni rilasciate nell'esercizio delle funzioni di rappresentanza, sono state pensate appunto per tutelare i deputati e i senatori dissidenti da eventuali ritorsioni da parte apparati dello Stato (e quindi controllati dal governo). Ciò dimostra quanto sarebbe costituzionalmente eversiva questa condotta del Cavaliere se dovesse essere stata effettivamente messa in atto.
Non c'è in gioco un appartamentino, ci sono in gioco la nostra libertà e il nostro Stato di diritto.

giovedì 23 settembre 2010

Napoli e Taranto, ovvero della salubrità del territorio

Nuova emergenza rifiuti in Campania: le soluzioni temporanee del governo, che aveva decretato (esattamente, aveva proclamato per decreto legge) la fine dell'emergenza, ora si stanno forse rivelando temporanee e il loro tempo sta per giungere. Così, in assenza di interventi strutturali, il sistema della raccolta della spazzatura sta di nuovo avvicinandosi al collasso e sono riapparsi cumuli di rifiuti per strada.
Speriamo tutti, campani o no, che si tratti solo di un disagio temporaneo, slegato dalle parti sensibili del ciclo dei rifiuti (ovvero lo smaltimento finale), ma dovuto alle operazioni di raccolta o di stoccaggio provvisorio. Fonti comunali propendono per questa idea.
Del tutto fuori luogo, invece, è il vistoso sconcerto dimostrato in diretta radiofonica da Guido Bertolaso (che sì, è ancora lì nonostante il famoso massaggio al preservativo!): non può un uomo di governo cadere dal pero quando gli si dà una notizia del genere su una materia che è stata di sua competenza e per la quale gli erano stati attribuiti poteri eccezionali. Sappiamo bene che forse non è la persona più competente in tema di trattamento dell'immondizia, ma almeno la forma andrebbe salvata: non dichiarare candidamente che qualcosa non gli torna, perché, sinceramente, molte cose non tornano neppure a noi.

L'altra notizia del giorno, passata in sordina e apparsa sull'edizione pugliese de La Repubblica, in realtà sarebbe stata una notizia da diffondere lo scorso 14 agosto, data di varo del decreto di cui parliamo, o almeno il 15 settembre, la data della sua pubblicazione. Si tratta di una pessima notizia per i tarantini e per tutti coloro che hanno minimamente a cuore le sorti dell'aria che si respira, dato che, fino al 31 dicembre 2012, le emissioni di benzoapirene, un pericoloso idrocarburo aromatico, non avranno limiti di legge in tutti i centri abitati con più di 150000 abitanti.
Esiste un beneficiato particolare di questa nuova norma, l'Ilva di Taranto, che con le sue emissioni di questo e di altri mortali inquinanti ha fatto crescere esponenzialmente la mortalità per leucemie e altri tumori nel capoluogo salentino di più di 190 000 abitanti. L'industria, così, non dovrà adeguare la propria attività agli standard di ecocompatibilità normalmente richiesti, in un baratto macabro tra vita e salute da un lato e il denaro e il profitto dall'altro.

mercoledì 22 settembre 2010

Ancora su cultura ed erudizione: Odifreddi, e la letteratura

Odifreddi, nel blog tenuto sul sito di La Repubblica, prende una singolare posizione sulla letteratura, almeno apparentemente in contrasto con gran parte della sua precedente attività (cercate qui e troverete molti commenti a scrittori), visto che il matematico è più noto per le prese di posizione in campo letterario e religioso che per la sua attività di docente.
Personalmente, non ho nulla in contrario alla completezza dell'intellettuale e Odifreddi, sebbene mi trovi in rotta di collisione col suo pensiero, lo reputo un intellettuale completo, supportato da una solida padronanza delle culture umanistica e scientifica. E fin qui, tutto bene.
Va molto meno bene, però, quando Odifreddi, nello scritto in questione, si dimentica di tutta questa sua attività pregressa e dichiara, tranchant: "a me sembra che gli umanisti non si rendano conto che buona parte della letteratura è solo divertimento e svago, appunto come i centri commerciali e i reality. Ora, lo svago è sacrosanto, ma se lo può permettere solo chi ha tempo da perdere. Non un Newton, ad esempio, che andò una sola volta a teatro, e scappò prima della fine. Non un Darwin, che trovava Shakespeare «cosí insopportabilmente pesante da trarne disgusto». Non i molti premi Nobel o medaglie Fields, che ho sentito con le mie orecchie affermare di non avere interesse a leggere «storie inventate»"¹.
Dunque, in parole povere, per il matematico la letteratura è semplice divertimento, il regno dell'inutile buono solo per chi ha tanto tempo da perdere, certamente non per le persone seriamente impegnate in quelli che Odifreddi, in un altro suo articolo, aveva definito "i veri miracoli". Finisce per porre questa sua affermazione come un corollario al mio precedente post sullo scollamento tra cultura ed erudizione nella società attuale.
La pertinenza non potrebbe essere più evidente, considerato che il matematico scrive in risposta ad uno scambio tra Scalfari e Baricco sui "nuovi barbari", ovvero sui portatori di una civiltà nuova che si impone spazzando via le ceneri di quella vecchia: Google, la tecnologia touch, Wikipedia e tutto il resto mettono in crisi il mondo dei mezzi di comunicazione precedenti, come la stampa mandò in pensione il manoscritto.
Non si può negare, però, che è da più di un secolo che si sta predicando il mondo nuovo e sempre lo si sta facendo mettendo in relazione le novità del decennio in corso con la realtà degli anni immediatamente precedenti. Salvo a volte far riferimento ad un non meglio determinato passato che raccoglie in sé vizi e virtù di epoche variegate se non diversissime tra loro.
In realtà oggi non forse ha più senso cercare i barbari. Le frontiere dell'Impero sono crollate e tutti ci siamo trasformati nel barbaro che distrugge i barbarismi altrui, nell'assenza di una cultura comune che possa sintetizzare in sé il pensiero di tutti. E' barbaro, dunque, il comunista, come il liberale, come il fascista, come il leghista. Lo è l'artista astratto, come quello che invece sogna il ritorno al classicismo. Lo è il fanatico delle nuove tecnolocgie, come il teledipendente, come chi sogna di distruggere computer e cellulari per tornare alla vita agricola di inizio Novecento. Lo è l'ateo, come lo è il credente. Nel pluralismo assoluto, la ribellione è permessa e dunque non è più ribellione.
L'unico denominatore comune è, appunto, l'assenza di un vero denominatore comune, lo scollamento delle nozioni (comuni a tutti gli scolarizzati) dalla cultura in cui esse vengono calate (per ciascuno diversa), il risultato del trionfo dell'erudizione di tipo scientifico sulla formazione di tipo classico. Distinzione he non va intesa, però, come la vecchia dicotomia tra le discipline classiche e quelle scientifiche: c'è un abisso nello studio "scientifico-formale" del latino e quello di tradizione rinascimentale che cercava nelle letterature antiche dei contenuti, perfino nelle forme. Si devono oggi conoscere i classici, ma nessuno pretende che li si faccia diventare un bagaglio della propria cultura (intesa, come sempre, come modo di sentire e di pensare).
Odifreddi si colloca in un filone esasperato di questa corrente quando predica l'inutilità della letteratura. Non si deve più imparare, dunque, per formare l'individuo, ma per apprendere nozioni di rilevanza pratica immediata e poter lavorare tutti insieme nella costruzione del mondo della scienza e della tecnica sognato da Comtes e dai positivisti. Il resto è divertimento.
A proposito di divertimento, fa bene ricordare a chi la pensa come Odifreddi, ma anche a chi non la pensa come lui, che in una civiltà diversa, dove l'erudizione era considerata inutile se non inserita in un contesto culturale, Pascal aveva definito divertimento (divertissement) tutto ciò che non forma l'individuo, ma lo distoglie dal pensare alla sua condizione miseramente umana (e, aggiungiamo, gli fa credere nei "veri miracoli" di cui parla Odifreddi). E, da uomo di scienza, ci avrebbe inserito anche la pura e semplice erudizione scientifica.



1 - Una nota, per essere puntigliosi: Newton forse non aveva tempo da perdere con la letteratura, ma di certo ne ha perso tanto in studi esoterici e astrologici. Ci rallegriamo, perché Odifreddi, più saggiamente, ha sempre dimostrato molto interesse per la prima e nessuno per i secondi, motivo per cui purtroppo (stando alle sue parole) non diventerà mai come Newton. Per sua fortuna.

domenica 19 settembre 2010

Cultura ed erudizione

In nome del relativismo e della libertà di pensiero, la nostra società ha rinunciato al possesso una cultura unificata e, per questa ragione, anche la scuola ha perso gran parte del proprio compito di formazione culturale degli allievi. Piuttosto si richiede che essa insegni delle nozioni e faccia apprendere delle capacità che possano tornare utili al discente qualsiasi sia l'opzione culturale da lui preferita. Si insegna il mezzo, in poche parole, non il fine.
E' stata una svolta epocale questa esposta, pensando che prima si credeva che compito dell'educatore fosse la forgiatura di un individuo, di una persona umana nel suo complesso, all'insegna del progetto culturale ritenuto più adatto in quel contesto. Ci sono state l'educazione cristiana, l'educazione umanistica, l'educazione patriottica dello Stato moderno (quella di Libro Cuore, per intenderci) e l'educazione fascista, tanto per citare alcuni esempi di situazioni in cui la scolarizzazione non mirava solo ad impartire conoscenze, ma anche e soprattutto all'insegnamento di un modo di pensare ed intendere.
Nel Medioevo, così, l'erudito era anche un colto, ovvero una persona intrisa della cultura del proprio tempo (non solo nozioni, ma un sentire) con un bagaglio scientifico, teologico e morale bilanciato. Nel Rinascimento, ugualmente, si sostituirono alla teologia le humanae litterae, ma comunque in esse si cercava sempre un ideale comportamentale dell'uomo. Così come nella società post-tridentina le scuole dei Gesuiti erano le più ambite proprio perché avevano come aspirazione la formazione a tutto tondo dell'allievo. Obiettivo analogo lo si trovava nelle public school anglosassoni dove veniva plasmato il gentleman perfetto.
Nel secondo Novecento, però, in nome della libertà di autodeterminazione dell'individuo, questo fine culturale della scuola si è dovuto ridimensionare, con un passaggio del testimone alla famiglia, all'associazionismo, allo spontaneismo delle relazioni. Garantendo così a ciascuno la possibilità di scegliere chi essere, ma nello stesso tempo trasformando l'insegnamento in semplice erudizione che mira a creare tecnici e non persone, semplici ingranaggi funzionali alla nostra società di mercato, dove solo il meccanismo della circolazione dei beni stabilisce posizione e successo di un cittadino.
Non si può definire tutto ciò così nettamente un male: una società che non mira ad un unico obiettivo culturale è senza dubbio più aperta e tollerante di una che invece pretende che tutti condividano alcuni principi e valori predeterminati. Ma certamente è da questa costatazione che è nata una delle più oscure visioni del nostro immaginario, partorita già nella letteratura romantica, poi divenuta endemica nel cinema e nel fumetto: lo scienziato pazzo, il genio senza freni che, non avendo limiti morali e culturali, crede di avere il diritto di fare tutto ciò che la sua preparazione tecnico-scientifica gli consente. Figura che è stata esorcizzata in opere comiche e tragiche, elevate e commerciali, in seguito entrata in relazione strettissima con un'altra paura novecentesca, quella dell'autodistruzione del genere umano.

venerdì 17 settembre 2010

La Francia fa abbandonare ai francesi le terre da cui estrae l'uranio

Il governo francese ha provveduto all'evacuazione dei lavoratori francesi nella regione mineraria del Sahel, per via della minaccia di un gruppo terroristico locale.
Il Sahel è quella parte dell'Africa appena a sud del deserto del Sahara famosa per la propria miseria e per la colonizzazione francese. E' molto meno nota, però, come una delle riserve mondiali di Uranio più ricche in assoluto, da cui dipende buona parte dell'approvvigionamento di uranio per le centrali atomiche transalpine.
Questa regione, a cavallo tra Niger, Mali e Muritania, è però altamente instabile dal punto di vista politico e la sicurezza dei dipendenti dell'Areva, l'ente che si occupa dell'estrazione del metallo pesante, è sempre dipesa dal dispiegamento di imponenti apparati di polizia e paramilitari.
Quelli nominati, sono paesi retti da dittature sostenute più o meno apertamente dalla Francia e comunque "pacificati" da una rilevante presenza di soldati francesi. Ciò che conta per Parigi è che gli interessi delle proprie aziende siano sempre tutelati, quale che sia l'impatto sull'ambiente e sulle condizioni di vita della popolazione. Nel caso di specie, per esempio, le estrazioni di uranio hanno finito per produrre l'inquinamento del fiume Niger, unico corso d'acqua degno di nota in una terra semiarida.
Il deserto e le sue popolazioni nomadi, però, sono stati sempre un problema per questi stati di tipo europeo nati in una terra che di europeo non aveva e non ha proprio nulla. La presenza dei nomadi del deserto, in particolare, è stata un problema costante per la stabilità dei confini e per il controllo del territorio. Così i governi hanno cercato di sedentarizzare, a volte con la forza, etnie come i Tuareg che da secoli vivevano nel nomadismo, ma questo sforzo ha spesso provocato la reazione armata delle tribù non avvezze a rispondere ad autorità diverse da quelle tradizionali.
Così tra i malumori dei nomadi, il malcontento dei locali che vedevano la loro terra depredata dalle multinazionali e la predicazione islamista che faceva sempre più proseliti in una terra dove l'Islam era invece stato tradizionalmente tollerante, il Sahel è divenuto una polveriera pericolosissima anche e soprattuto per la nazione che aveva più contribuito a plasmarlo, la Francia, che, periodicamente, è costretta a mettersi in stato di allerta e ad evacuare i propri cittadini sempre più in pericolo.
Il businnes del nucleare, però, difficilmente si fermerà e la presenza francese in Niger, Mali e Mauritania è destinata a protrarsi, pure tra mille difficoltà. Se, però, si vuole sostenere che le regioni di estrazione dell'uranio sarebbero molto più stabili di quelle petrolifere, allora toccherà a molti nuclearisti di casa nostra fermarsi per una riflessione: col passare del tempo, è perfino prevedibile un peggioramento della situazione.



ERRATA CORRIGE (Quando ci vuole ci vuole)
Nel posto del 16 febbraio, erroneamente ho chiamato il presidente della Rai Galimberti. In realtà ho confuso le due liquide: il cognome corretto è Gerimberti.

Ancora Cacciari: troppa democrazia fa male

Dopo un'estate trascorsa a cambiare idea sulle primarie (no, dobbiamo candidare Casini ex officio; sì, le primarie ci distinguono e fanno bene...), Massimo Cacciari esprime la sua versione (temporaneamente?) definitiva sulla questione della leadership di coalizione: non si deve offrire la candidatura a Casini (come diceva lui ad agosto), né si devono fare le primarie (come lui diceva sempre ad agosto, ma verso la fine del mese), ma si deve tenere Bersani perché è l'unico in grado di tentare una convergenza con l'UDC.
Già si può immaginare la gioia degli elettori di centrosinistra nel sapere che quello che per ora resta il maggiore partito dell'opposizione si dovrà alleare con Casini, un tipo che tiene in partito i vari Cuffaro, che ha votato tutte le leggi vergogna e che ancora oggi non è poi così contrario al legittimo impedimento e a tutti gli altri inghippi coi quali Alfano alias Ghedini cerca di salvare Cesare dalla prigione.
Ma ciò che teme maggiormente Cacciari sono le primarie che, secondo lui, incoronerebbero Vendola e decreterebbero la morte, o meglio la mai nascita, del Pd che voleva lui. Infatti, sostiene il filosofo, la scelta del presidente pugliese porterebbe il partito così a sinistra che non sarebbe nemmeno più definibile socialdemocratico.
Ma forse qui dobbiamo fermarci e analizzare il pensiero di Cacciari che, da filosofo, dovrebbe sapere bene che le parole hanno un valore. Intanto va detto che il movimento di Vendola, nonostante nome e intenzioni, si può benissimo classificare come socialdemocratico: la sua posizione ideologica è quella delle socialdemocrazie classiche, prima della crisi della sinistra e della sua perdita di identità. Per cui forse si potrebbe avanzare il sospetto che la socialdimocrazia, per Cacciari, debba essere quella famosa sinistra che cerca di scopiazzare la destra limitandosi a rimuovere gli aspetti più apertamente clericali e xenofobi dal programma ufficiale di governo.
In seconda battuta, va osservato che se gli elettori di centrosinistra voteranno per Vendola, ciò significherà o che Vendola è convincente come leader, o che non ci sono alternative, oppure che siamo davanti ad una combinazione dei due fattori. In ogni caso, sarebbe l'incoronazione del leader almeno meno peggiore. Ed è questo a spaventare Cacciari?
In ultimo luogo, il rifiuto delle primarie in via (forse) definitiva da parte del filosofo potrebbe essere un indizio su ciò che una certa parte dell'intellighenzia di sinistra vorrebbe che fossero le formazioni politiche, cioè una proiezione delle loro posizioni intellettuali, nella presunzione che il popolo debba scegliere tra il pulismo di Berlusconi e le loro arzigogolate visioni illuminate del futuro e del mondo. E, se il popolo sceglie male, allora è unicamente affar suo.
Una visione piuttosto gretta della politica che non farà altro che approfondire lo scollamento tra elettori ed eletti, tra partiti e società. Ciò che serve al centrosinistra non sono novelli sacri romani pontefici che si incensano tra dogmi e postulati e poi magari passano ore al telefono con Cuffaro, Consorte, Tarantini e altri loschi figuri. Ciò che serve sono persone che sappiano dare alla gente una visione del mondo diversa dal quelle leghista, berlusconiana e ciellina, che siano in grado di dare delle risposte dove gli altri sanno solo alzare il dito medio e gridare al comunista. Ma, finché saremo in mano a Veltroni e D'Alema, troppo pronti ad accogliere i suggerimetni degli intellettuali come Cacciari, allora questo rimarrà sempre un sogno.

giovedì 16 settembre 2010

Ma è Crozza il primo problema della Rai?

Maurizio Crozza è stato attaccato dal presidente della Rai Galimberti per l'uso del turpiloquio che "svilisce l'azienda". In particolare sul video che La Repubblica, il giornale di Galimberti, ha allegato alla notizia sono stati evidenziati i passaggi controversi del breve sketch con cui il comico genovese ha introdotto, come al solito, la trasmissione di Floris: sono state adoperate le parole cazzo, minchia, fanculo, cazzate e trombare.
Se è vero che forse il linguaggio televisivo abusa un po' troppo dell'ampia libertà concessa per scadere nella volgarità e nell'osceno, di certo non è una parentesi satirica di Crozza a poter essere condannata. Forse sì, c'è stato un utilizzo più frequente della media di questi termini non propriamente puliti, ma era proprio necessario un intervento di Galimberti per questo?
Sia chiaro, non sono contrario a che un presidente, scelto come "di garanzia", esprima commenti su ciò che viene trasmesso. Anzi, proprio per il suo ruolo di garante, forse è opportuna una sua costante presenza per giudicare ciò che accade nella Rai lottizzata dai partiti. Ma di sicuro in questo caso la spendita di una sua dichiarazione non è stata né doverosa né opportuna.
La Rai è un'azienda con un mare di problemi: il TG1 sembra la succursale di Fede, le epurazioni sono praticamente annuali e riguardano anche personalità di centrodestra (come Monica Setta) colpevoli di non aver seguito pedissequamente le linee del Padrone, Santoro ancora non ha una trasmissione per la stagione ormai già cominciata. E Galimberti si occupa delle "cazzate" di un comico?
E' famosa una tecnica di resistenza intellettuale ai regimi, ovvero ubbidire nelle piccole cose e disobbedire in quelle fondamentali. In Italia, invece, parlare del poco è sempre facile e osannato, mentre è sul molto, sugli altari del potere, che non si apre bocca.

martedì 14 settembre 2010

Avanti, siam leghisti!

Dopo lo scandalo della moglie di Bossi e della sua scuola di Bosina, che ha ricevuto 800 000 euro di contributi pubblici da Roma Ladrona mentre gli istituti statali subivano la mannaia dei tagli indiscriminati di Tremonti, ecco una nuova notizia dalla galassia dell'«istruzione» leghista.
Il comune di Adro (BS), già famoso per le taglie di 500 euro messe sulla testa dei clandestini e per lo scandalo della mensa negata ai bambini che non la pagavano (perché non potevano), ha inaugurato un nuovo polo scolastico elementare intitolato a Gianfranco Miglio, ideologo del Carroccio. Oltre alla dedica, però, questo istituto ha anche altre peculiarità, prima tra tutte la presenza del Sole delle Alpi (il simbolo del partito leghista) stampigliato un po' ovunque, nonostante l'edificio sia pubblico, ovvero di tutti, siano o meno leghisti.
Il sindaco si difende, dicendo che il simbolo in questione non sarebbe un riferimento al partito a cui appartiene, ma unicamente un retaggio della storia locale, di cui lo ritiene indiscutibilmente patrimonio. Il suo significato politico, afferma, dovrebbe essere assolutamente secondario.
Giustificazione abbastanza grottesca, come è grottesca la presenza ossessiva del Sole delle Alpi (utilizzato perfino al posto del carattere di stampa "O" in tutte le scritte...), perfino più abusato dei fasci littori degli edifici pubblici nel Ventennio, altri simboli partitici spacciati da chi li imponeva per culturali. E proprio di questo possiamo parlare, di un'occupazione di tipo fascista di una scuola da parte dei politici al governo, di un'invasione simbolico-ideologica che mira ad abituare le giovani menti degli scolari al nuovo partito egemonico, farlo diventare una presenza familiare, quanto Topolino o la Coca-Cola.
Non è la prima volta che si riscontrano analogie tra Lega e Fascismo, a partire dalla retorica volgare ed esaltante di una patria (nel caso leghista inesistene) rappresentata come in costante pericolo, attaccata da nemici interni ed esterni, stretta tra i comunisti e i capitalisti che la stritolano e le tolgono la pace sociale. La stessa visione corporativa della società (conciliazione degli interessi padronali e operai), l'odio professato verso la "vecchia politica", ora in crisi di rappresentanza profonda, gli slogan come "tutti corrotti tranne noi" e il disprezzo per le regole del mondo liberale, viste solo come un ostacolo al fare dell'uomo padano/fascista, sono chiari retaggi littori del Carroccio.
Ugualmente fascista è l'anticristianesimo cristianista di coloro che non esitano a dare dell'imam all'arcivescovo Tettamanzi e poi utilizzano la croce come una bandiera non religiosa (come è e deve essere), ma "culturale" (se si può parlare di cultura riguardo al leghismo). Si negano i valori che il Cristianesimo promuove, propagandandone altri ad essi antitetici, ma si vogliono preti e chiese perché parte della "scenografia" delle nostre città.
Nella scuola di Adro, a questo proposito, il Crocifisso in aula sarà attaccato con delle viti per essere inamovibile: probabilmente si vuole evitare che scenda e se ne vada, disgustato da questa becera prepotenza leghista.

mercoledì 8 settembre 2010

Interim a tempo indeterminato?

Si trova anche questo:

Sakineh e la debolezza delle parole occidentali

La vicenda della lapidazione di un'adultera iraniana ha mobilitato il mondo intero e, in uno dei rarissimi casi di ragionevole concordia, tutti i leader politici occidentali, gli uomini di cultura e le personalità pubbliche si sono esposti in prima persona per chiedere l'annullamento della condanna a morte della donna.
La pena di morte non si distingue in alcun modo dall'omicidio: non ha la giustificazione della scelta tra una vita e un'altra (il condannato è al momento innocuo), non quella della legittima difesa, non quella della correzione. La pena di morte è un semplice gesto di vendetta pubblica, la decisione arbitraria che una persona, per ciò che ha commesso, non sia più degna di essere considerata tale e possa essere uccisa legittimamente. Questa è la ragione per cui questa condanna a morte, come quella molto meno nota di questo ragazzo sempre iraniano (molto meno conosciuto) e tutte le altre che quotidianamente sono pronunciate ed eseguite in giro per il mondo, in una presunzione di giustizia senza senso, debba essere respinta e biasimata da qualsiasi assertore dei diritti umani.
Sorprende, però, la totale assenza di coerenza da parte dei firmatari dei vari appelli a favore della donna, dei politici che hanno fatto esternazioni a suo favore e delle personalità pubbliche che si sono appellate alle autorità iraniane per la grazia. Non è certo questa né la prima né l'ultima esecuzione contro la quale ci si dovrebbe battere, eppure questa fa scalpore, tutte le altre no.
Non fanno scalpore gli assassini americani gasati, né i ladri cinesi che vengono decapitati, né ciò che accade in una nazione europea ancora retta da una dittatura, la Bielorussia. Non fanno scalpore, oltre che per le solite opportunità politiche (i Cinesi è bene tenerseli buoni, sugli Iraniani è meglio spalare tutto il fango possibile per preparare le opinioni pubbliche all'eventuale futura guerra), anche per un'opzione culturale molto più profonda: questa condanna riguarda un'adultera, quelle altre delle persone che hanno messo in atto comportamenti anche per noi classificabili come reato.
Fondamentale è questa distinzione per il modo di accogliere da parte dell'opinione pubblica un'uccisione. Dato che il reato anche per noi è (idealmente) un marchio di infamia, perché il criminale comune è semplicemente della spazzatura da togliere dalla circolazione in qualche modo (non ci importa come, basta che sparisca), allora il suo omicidio è tollerabile, solo appena biasimabile per non troppo gridate motivazioni morali. Ma la sfera della sessualità, per noi occidentali, è totalmente relegata all'alcova, è una questione in cui il potere pubblico non può immischiarsi: è intollerabile che una donna sia punita, a fortiori con la morte, perché ha tradito il marito.
La crociata dell'Occidente, dunque, lungi dall'essere basata su una proprosizione universale affermativa («uccidere una persona è sempre sbagliato»), si basa su una proposizione particolare («in alcuni casi è sbagliato uccidere una persona») molto meno incisiva e molto meno condivisibile. Non si afferma un postulato morale, una condicio sine qua non della civiltà, ma solo un nostro banale gusto culturale, un'opzione tra le tante possibili e dunque, come ogni opzione, accettabile o meno a discrezione.

martedì 7 settembre 2010

Profitto contro sicurezza. Il "ritorno" al nucleare tedesco

Appare sorprendente come gli stessi che fino a ieri definivano la tesi del surriscaldamento globale come una fantasia da ecologisti adesso siano divenuti i maggiori promoter del ritorno al nucleare italiano in quanto rimedio al surriscaldamento globale. Questa repentina conversione sulla via di Damasco farebbe quasi pensare che, incredibilmente, costoro siano talmente allettati dalla devastazione dell'ecosistema da farsi paladini di qualsiasi mossa dei governi adatta ad avere un terrificante impatto ambientale e sulla salute umana.
Un sedicente studio sugli effetti del nucleare condotto da Enel e Edf (ovvero i costruttori delle nuove centrali atomiche italiane) afferma che "bisogna contrastare la diffusione di disinformazione o di informazioni parziali che inevitabilmente causano il propagarsi di paure collettive, diffondendosi a grande velocità attraverso canali quali Internet". Per puro spirito d'opposizione, voglio quindi dare il mio contributo alla disinformazione antinucleare.

E' stato esaltante per i nuclearisti sapere che Angela Merkel vuole tornare al nucleare: finalmente i dogmi antiscientifici di Schröder vengono giù, le cassandre delle sinistre dovranno fare i conti con un'intera Europa che marcia al ritmo di reattori atomici, si ha la prova che costruire centrali a fissione è ancora una scelta saggia.
Ora, però, si è saputo anche in Italia in cosa consisterà la "rivoluzione" tedesca, che adesso sembra molto meno rivoluzione e molto più una politica al risparmio. La Germania, infatti, allungherà semplicemente la vita delle centrali già attive per legge, in attesa del passaggio dall'attuale sistema di produzione ad uno interamente fondato sulle energie rinnovabili.
Alle opposizioni tedesche questo discorso è sembrato troppo poco convincente, visto che il piano di riforma energetica ha sì istituito la già da molto tempo ventilata tassa a favore dello sviluppo delle rinnovabili, ma l'ha parzialmetne neutralizzata con un meccanismo di scarico per i contribuenti costretti a pagarla, così che i vantaggi per l'erario saranno inferiori alle aspettative. Inoltre l'opinione diffusa è che si tratti unicamente di un salvataggio delle lobby industriali, a cui sarà concesso di speculare ancora un poco sull'attuale assetto delle fonti di approvvigionamento e ritardare gli obiettivi di ricerca prefissati.
Anche se le opposizioni tedesche avessero torto e tutta la manovra della nuova imposta dovesse avere gli effetti benefici sperati all'inizio, ciò non salverebbe la riforma tedesca da un vulnus originario apparentemente piuttosto scontato: le macchine (come le centrali nucleari) non variano la propria efficienza per legge.
Già in Francia (ma anche in altri paesi) le crisi di bilancio hanno imposto di recente ai governi nuclearisti, per non abbandonare l'obsoleta e costosa tecnologia atomica, l'allungamento artificioso delle aspettative di vita delle centrali, ovvero si è imposto con provvedimenti giuridici che le strutture, progettate per rimanere attive per un certo periodo di tempo, dovranno rimanere in funzione per un periodo ulteriore, non previsto inizialmente.
Così facendo, il rischio di incidente è destinato ad aumentare esponenzialmente di anno in anno, non essendo la macchina più nel periodo di "garanzia", ma in compenso il gestore dell'impianto potrà godere di un extraprofitto nemmeno immaginato al momento dell'apertura. E ora anche la Germania si sta avviando su questa strada di risparmio sulla pelle dei cittadini.
Anche se quindi i vari nuclearisti nostrani ci rassicurano che le centrali nuove sono sicurissime e che non c'è alcun pericolo perché le tecnologie sono ben testate, chi può assicurarci che anche l'Italia, tra qualche decennio, non sceglierà di barattare la nostra sicurezza per il profitto di qualche industriale?

lunedì 6 settembre 2010

Il comprendonio di cacciari e la moschea milanese

Cacciari, intervistato, dice la propria in merito alla controversia tra la Lega e il Comune di Milano per la costruzione di una moschea nella città ambrosiana. Dopo il cardinale Tettamanzi, anche il filosofo vuole mettere in chiaro alcuni punti fermi. Leggiamo dunque con interesse le sue affermazioni che si rivelano essere, come al solito... delle belle banalità!


Cacciari, Tettamanzi dice che le istituzioni civili devono garantire a tutti la libertà religiosa e il diritto di culto.
"Diritti, diritti... Non bisogna parlare di queste cose solo in nome dei diritti. Certo che Tettamanzi ha ragione. Basta però che la moschea se la facciano. Mica deve pagarla il Comune. Se la devono pagare loro".


Evidentemente Cacciari non ha capito nulla del dibattito in corso: non si chiede l'edificazione di una moschea, si chiede il diritto di destinare un luogo al culto musulmano. Sembrava chiarissimo fino a ieri e invece l'eminente filosofo prova a istillarci il dubbio del contrario.


Milano è una città dove vivono centomila persone di religione islamica e non esiste un luogo di culto loro dedicato. Le comunità musulmane cercano inutilmente di ottenere uno spazio da sette anni. Il cardinale si è mosso per questo.
"Ripeto che deve essere chiaro che non è il Comune a dover pagare la moschea. Detto questo, propongo un ribaltamento della questione: le comunità si organizzino, comprino un terreno, dicano facciamo tutto noi. A quel punto il Comune è con le spalle al muro: non è possibile che non individui un'area, o un edificio che può andare bene. Se non lo fa è inadempiente, è il Comune a essere fuori legge".


E ancora Cacciari fa finta di non capire la questione, nonostante l'aiuto del giornalista. Inoltre il filosofo, che, ricordiamo, ha fatto il sindaco di Venezia e quindi dovrebbe essere esperto di queste cose, fa finta di dimenticarsi come funzionano le cose nel campo dell'edilizia: si costruisce solo con il permesso di costruire del Comune. Dunque, anche se si è comprato il terreno e si è fatto il progetto, se l'istituzione dice di no è no e non c'è legge che tenga. Inoltre esiste una limitazione che si chiama 'piano regolatore', per cui prima il comune decide le destinazioni e solo dopo si può pretendere (salvo varianti approvate sempre dal Comune) di costruire un immobile con una certa destinazione d'uso in un certo luogo.Se anche i musulmani volessero usare un locale avente altra destinazione d'uso, allora servirebbe sempre il permesso dell'istituzione per tramutarlo in luogo di culto. Strano che Cacciari non lo sappia.
Si può osservare una simpatica illogicità, infine, nel suo ragionamento: "le comunità si organizzino, comprino un terreno, dicano facciamo tutto noi. A quel punto il Comune è con le spalle al muro: non è possibile che non individui un'area, o un edificio che può andare bene".
E' facile notare che qualcosa non quadra nel discorso. Lui invita i musulmani ad acquistare un terreno, perché tanto poi  il Comune dovrà individuare un'area. Ora, lasciando perdere che giuridicamente l'istituzione non è affatto tenuta ad individuare un bel niente, osserverei con attenzione l'articolo indeterminativo che il filosofo mette davanti ad "area": dunque, i musulmani comprano un terreno ben determinato e il comune individua un'area qualsiasi per destinarla alla moschea? E' ridicolo.

Così hanno fatto. Ma la commissione edilizia del Comune boccia sempre il progetto. Palazzo Marino si dice che non è una priorità.
"È impossibile, è chiaro che il Comune deve rispondere. Se non lo fa lo denuncino".
he in Italia vogliono c

Il giornalista prova a far dire a Cacciari ciò che lui non ha detto, ovvero la condotta che tutti coloro costruire devono tenere: si acquista il terreno, si presenta il progetto e si chiede il permesso al Comune. E aggiunge che il permesso è stato sempre negato.
Cacciari cade dal pero e risponde che ciò è impossibile. Vorremmo capire per quale ragione, però, sarebbe tale, visto, per fortuna, in Italia è ancora vietato costruire a libero piacimento e l'autorizzazione comunale non è una semplice formalità. Quando si tocca il discorso denuncia si raggiunge l'apice della farsa: forse che per Cacciari il cemento deve divenire un diritto?

Nella giunta comunale di Milano pesa molto la posizione della Lega. Matteo Salvini, un giovane consigliere, ha irriso la Curia: ai musulmani aprano i loro palazzi, ha suggerito.
"Questa frase testimonia solo l'idiozia di costui. A me invece piace ragionare".


A lui piace ragionare. E si vede...

Anche Maroni è intervenuto con una frase tranchant: sono il ministro dell'Interno, ha detto, non un costruttore di moschee.
"E ha ragione. Ha dato una risposta villana, però ha ragione. La moschea se la devono fare le comunità musulmane".


Ha ragione solo per chi come Cacciari non ha capito niente. Comunque fa sempre piacere che un esponente di spicco del Pd colga l'occasione per allinearsi ai deliri leghisti e all'intolleranza, modificando la realtà pur di convincere i cittadini, sempre più disinformati, ad accettare supinamente il populismo razzista padano. Poi ci si domanda perché il centrosinistra perda consenso, la Lega ne guadagni e i leader d'opposizione (da rottamazione immediata senza incentivi, ma al massimo con risarcimento per il disastro che hanno fatto) siano sempre più farseschi e ridicoli.

domenica 5 settembre 2010

Federalismo in salsa Maroni

Ecco come intende la Lega al governo l'autonomia degli enti locali virtuosi. In compenso alla Regione Sicilia piovono contributi a pioggia per mantenere in piedi tutto l'apparato clientelare-mafioso che ben conosciamo.

sabato 4 settembre 2010

Hawking e Dio: una storia tormentata

Hawking ha cambiato idea: Dio non c'entra più nulla col Big Bang e la nascita dell'Universo si può spiegare benissimo unicamente con le leggi fisiche. Gli atei italiani sono in festa, a partire dal loro mentore Pirgiorgio Odifreddi, il quale ha esclamato che era ora, anzi, che il famoso astrofisico giungesse a questa conclusione, scontata da molto tempo. Comunque è un ulteriore colpo alla religione e alle superstizioni che essa diffonde.
Per una volta concordo con Odifreddi: invece di altalenare per decenni con le sue dichiarazioni Dio c'è, Dio non c'è, in un poco serio carosello teologico-pseudo-scientifico, l'astrofisico avrebbe potuto dire fin dal primo momento che forse sì, i fenomeni scientifici possono e devono spiegarsi unicamente con motivazioni scientifiche. Un paradosso per un credente? Forse no.
Hawking ha peccato infatti per ben due volte d'orgoglio. La prima quando affermò di aver trovato Dio nel Big Bang, quando, per definizione, Dio è l'essere infinito e incommensurabile, impossibile da comprendere dalla mente umana che (per sua stessa natura) è limitata e può solo dedicarsi alla conoscenza del limitato. La seconda quando, adesso, ci insegnerà ex cathedra che Dio non serve nel suo modello scientifico e dunque non esiste, perché non ha un posto tra le cose esistenti.
Abbastanza carino che, come al solito, un nostro piccolo e debole simile, che conosce molto poco della realtà in cui vive (perché attualmente la scienza conosce molto poco della realtà che studia) si metta a pontificare su cosa possa esistere e cosa non possa esistere nell'Universo: se nel suo modello matematico c'è bisogno della spintarella, allora ecco che è pronto il Creatore a tappare il suo buco (tipica scorciatoia di chi non sa di non sapere); ma non appena qualcuno appena più desideroso di conoscere di lui riempie il buchetto, ecco che lo scienziato-teologo, sciamano della religione razionale a cui la modernità si sta votando, è pronto ad espungere l'intervento metafisico per fare professione di ateismo militante, per la gioia degli Odifreddi di turno.
Purtroppo non stiamo parlando del primo venuto, ma di una delle menti più illustri del nostro tempo, che dimostra in questo modo tutta la propria, spesso dagli osservatori profani ignorata, umanità. Così è facile che chi a casa fa fatica a trovare gli occhiali da vicino si metta a gridare di aver trovato Dio, per poi, una volta trovate le sue benedette lenti, capire di non aver trovato un bel niente, che tutto sarebbe stato spiegabile in modo molto più semplice.
In questi casi la considerazione giusta da fare è "sono un umano fallibile", oppure "ecco, questo significa che sono in grado di comprendere tutto l'Universo"?

venerdì 3 settembre 2010

CL condanna il moralismo

Ogni anno il meeting di Rimini è un'occasione per testare la fede dei credenti cattolici, italiani in primis. Ogni anno si assiste alla classica parata di politicanti, banchieri, faccendieri, prelati oscurantisti, berlusconiani di ferro, agenti dei servizi deviati, esponenti delle lobbies del cemento, fanatici, omofobi, crociati fuori tempo massimo, retrogradi, puttanieri, complici di puttanieri e via discorrendo.
Quest'anno, in particolare, abbiamo assistito al tragicomico spettacolo di quelli che fino a un anno e mezzo fa facevano i paladini dei valori cristiani, della moralità, del rispetto per la vita, della famiglia tradizionale, dell'omofobia eletta a sistema, del razzismo e dell'intolleranza per la purezza della nostra civiltà, ma che adesso si ergono in cattedra per condannare il male del moralismo, del giudizio senza appello, e praticare il tiro al bersaglio contro Famiglia Cristiana, periodico reo di aver pronunciato un giudizio sulla vita di qualche politico troppo in vista.
Così, mentre la libertà di coscienza sulle unioni gay è considerata l'ultima apostasia, il patriarca di Venezia Scola, triste esempio di come la Chiesa e i prelati siano così spesso fieri di barattare Cristo per denaro e potere, tesse l'elogio di Renato Farina, per lui modello di giornalismo. Farina, noto come agente Betulla, era quell'agente dei servizi che scriveva con l'obiettivo dichiarato di fare controinformazione, depistare, occultare le vere notizie nel fango. Se questa è la verità per Scola, allora farebbe meglio e non lerciare i paramenti sacri un giorno di più e tornarsene allo stato laicale, giusto per abbassare il livello della farsa ecclesiastica.
Poi, sempre il Patriarca, mentre san Marco si rivoltava nella tomba, si scaglia contro i moralisti che abusano dello strumento della testimonianza per i loro scopi. Invece, immagino voglia dire Scola, il cristiano corretto, soprattutto se chierico, deve tirare avanti e fregarsene di tutto il marciume che lo circonda, seguendo l'esempio dei ciellini che dove c'è Mafia a Milano non vedono, dove c'è 'Ndrangheta non sentono e dove c'è Compagnia delle Opere e relativi scandali non parlano!
Il cristiano, dice CL, non giudica, non scaglia la prima pietra. Invece, immagino, è legittimato a fare affari e intrallazzi in nome di un movimento che quando si definisce cristiano bestemmia e che, alla faccia della Chiesa Una e Santa, definirlo Chiesa nella Chiesa è dire poco. E Formigoni ci minaccia di voler trasformare la sua esperienza ciellina lombarda in nazionale...

giovedì 2 settembre 2010

Cuore a sinistra e portafoglio a destra. Ma è questo il problema?

Mauro Corona risponde a Vito Mancuso sull'opportunità o meno per un autore di rivolgersi a Mondadori, che crede "che lui sentisse il bisogno di tornare alla ribalta, viveva un calo di popolarità. Ha cavalcato quello che poi, a torto, è divenuto un caso". Se la prende con i "professionisti della coscienza dovrebbero prendersela con la loro sinistra, quella che dal 1994 si rifiuta di fare una legge sul conflitto di interessi anziché venire a rompere le scatole a me", ricordando la sua vita difficile e rivendicando l'opportunità per tutti di pubblicare i propri libri in modo da ottenere il massimo profitto per se stessi, visto che nel mondo in cui viviamo ciascuno pensa solo a se stesso e non è con le belle idee che si riempie il piatto.
Il punto di vista dello scrittore-montanaro è pienamente legittimo, visto che non è stato certo lui, come non è stato nessun altro autore della casa editrice, a portare avanti la condotta illecita, anche se sicuramente ha potuto giovare di quel margine di profitto aggiuntivo che discende dagli illeciti (presunti?) di chi gli ha pubblicato i libri. Ma se nello spunto le dichiarazioni di Corona sono condivisibili, nella forma e nei corollari diventano inaccettabili e, in alcuni punti, perfino patetiche.
Intanto Corona butta nel calderone istanze e colleghi diversissimi tra loro. Appare incapace di distinguere il caso di Saviano (scrittore neofito in cerca di un editore per un libro all'apparenza di non facile pubblicazione), con quelli di Bocca (che entrò in Mondadori nel '91, quando il suo proprietario non era Presidente del Consiglio e ne uscì nel 2001, con la rielezione di Cesare), di Vito Mancuso (che abbandona l'azienda solo ora) e di Massimo D'Alema (che non sembra intenzionato a lasciare la casa editrice). Così come non appare in grado di distinguere l'abbandono di Bocca, scelto per motivi esclusivamente politici, da quello di Mancuso, giustificato con una ragione etica. Infine Corona sostiene che, pur di guadagnare, ogni scelta è lecita (Saviano, "avesse un po’ di cervello dovrebbe inginocchiarsi alla Mondadori che gli ha gonfiato il portafoglio").
L'ultima dichiarazione ha del raccapricciante e del disgustoso: è un inno alla prostituzione, alla vita prezzolata, al servilismo più squallido. Corona ci spiega che basta riempirgli un poco il conto in banca per comprare la sua persona, per farsi adorare come divinità da lui. Corona ci sta dicendo che davanti al denaro sonante, lui svenderebbe perfino la propria dignità. Buono a sapersi.
Andiamo alla parte più razionale dell'intervento, dove troviamo in un unico calderone Saviano, Bocca, Mancuso e D'Alema. Bocca è accusato di aver lasciato Mondadori troppo tardi, mentre in realtà se ne è uscito nel 2001, quando si è aperta la grande stagione berlusconiana, quando gli intellettuali di sinistra si mobilitarono con la società civile per svegliare una classe politica addormentata. Che io ricordi, quella fu la stagione più vivace per il popolo di centrosinistra che si ricordi, in un fermento di idee e di moti d'orgoglio, stagione a cui Bocca aderì, anche col suo abbandono di Mondadori (dimostrando, per una volta, tempismo).
Saviano era uno scrittore non ancora alla ribalta quando presentò a Mondadori il libro Gomorra, un'opera che di primo acchito poteva far rimanere perplesso un editore sulle sue possibilità di successo nel mercato nazionale: si descriveva una realtà sconosciuta alla maggior parte degli italiani, poco appetibile, apparentemente. Il successo fu del tutto imprevisto ed è ovvio che uno scrittore emergente si rivolga al primo editore che gli pubblichi il libro, non essendo abbastanza famoso per fare il prezioso.
Mancuso, infine, è il primo di questi quattro personaggi a meritare le critiche di chi, come Corona, denuncia ipocrisia. Mancuso sì, solo ora sembra aver scoperto che Berlusconi è quello che è, che si fa le leggi ad personam, che ha un suo modo tutto particolare di fare impresa. Eppure Mancuso non è uno scrittore alle prime armi, ma un ben noto teologo: avrebbe trovato difficoltà a trasferirsi da un altro editore?
Infine D'Alema e tutti gli altri esponenti della politica e dell'Intellighenzia di sinistra che lavorano per Mondadori. Loro meritano un discorso a sé, perché non hanno né le ragioni di Saviano, né hanno seguito l'esempio di Bocca. E, se Mancuso si è posto un (ipocrita?) problema, almeno a parole, loro hanno preferito, come al solito, voltarsi dall'altra parte e fare finta di nulla, continuando il loro rapporto simbiontico col Biscione. Loro, forse, hanno pensato quello che solo Corona ha avuto il coraggio di dire: finché c'è la paga, tutto va bene.
Ha ragione, però, Corona, quando afferma che forse non è agli autori che si deve richiedere il primo sforzo. Dovrebbero essere i lettori-acquirenti a scegliere meglio cosa comprare, che imprenditori premiare e quali punire per la loro condotta. E, sicuramente, ha ragione accusando politici ipocriti che ora gridano al boicottaggio, ma quando erano al governo hanno preferito non toccare lo spaventoso conflitto di interessi berlusconiano.